Non è esattamente un biopic, almeno non nel senso convenzionalmente attribuito alla parola, perché c’è la voce fuori campo del vero protagonista ad accompagnarci dall’inizio alla fine. Documentario, neanche a parlarne. Nelle due ore e dieci di durata, è vero, la vita del suddetto protagonista, entertainer e musicista, è ricostruita con scrupoloso dettaglio e una sincera attenzione per le pagine più scabrose della sua vita. Ma la forma della storia, il look, il modo in cui gli eventi si intrecciano per costruire, oltre la cronaca nuda e cruda, uno spettacolo esplosivo, sono 100% fiction.
Capire in che casella inserire Better Man, regia di Michael Gracey (The Greatest Showman) e nelle sale italiane il 1° gennaio, non è facile. Nemmeno così importante. La cosa veramente importante è ribadire che la scelta di sistemare la storia sul filo di un equilibrio instabile tra verità e drammatizzazione ha perfettamente senso perché restituisce, in maniera molto naturale e spontanea, il caos, la complessità e l’inesauribile ricchezza della vita di Robbie Williams, popstar tra le più influenti, famose e amate degli ultimi trent’anni.
Dagli esordi con i Take That alla fortunata carriera solista, c’è più di quanto uno storyteller affamato possa addentare: sesso, droga, alcol, musica, tendenze autodistruttive, frenesia, morbosa attenzione dei media, lavoro interiore, rinascita. Michael Gracey costruisce Better Man su una serie di dialoghi serrati con Robbie Williams, tradotti in un musical semi-autobiografico (ecco l’etichetta) veloce e molto creativo scritto insieme a Simon Gleeson e Oliver Cole. Prima di cominciare, bisogna rispondere alla domanda da un milione di dollari: perché proprio una scimmia?
Un protagonista d’eccezione
Già, perché una scimmia. La risposta non soffia nel vento, come cantava Bob Dylan – anche lui sottoposto al trattamento biopic, tra l’altro nella stessa finestra temporale di Better Man – ma non è neanche così chiara. Il tentativo più semplice e ovvio di affrontare la questione è il più corretto: di una scimmia si tratta, perché così si è sempre percepito, in privato e sul palco, Robbie Williams. La scelta è la ragione principale di attenzione e interesse nei confronti di Better Man e una garanzia piuttosto seria della sua sopravvivenza nei discorsi futuri. In estrema sintesi: il film rifiuta di affidarsi a un attore in carne ed ossa preferendo sostituire a Williams una scimmia digitalmente ricostruita. Non è esatto; a dare vita e movenze all’animale, in scena, è il lavoro dietro le quinte dell’attore britannico Jonno Davies, ma la sostanza non cambia.
La voce, le canzoni, l’attitudine scanzonata, strafottente e per gran parte del tempo assolutamente fuori controllo, appartengono totalmente a Robbie Williams, senza artifici o compromessi al ribasso. Better Man è un biopic musicale costruito sull’accostamento di contraddizioni. Stretta aderenza ai fatti e deformazione spettacolare. Esposizione cronologica degli eventi, ma non per le canzoni. Nella storia arrivano senza troppa attenzione (filologica) alle tappe del percorso di maturazione artistica e creativa di Williams. Non ascoltiamo “Feel”, “Let Me Entertain You”, “Rock DJ” o “She’s The One” nel momento in cui sono state composte, ma in funzione del potenziale emotivo e dell’effetto esercitato sulla storia.
Il dato biografico è d’altro canto molto rigoroso. Comincia tutto a Stoke-on-Trent, nord-ovest dell’Inghilterra. Il piccolo Robbie è un bambino su di giri con pochi amici, uno sfacciato esibizionismo e un trauma grande quanto una casa: l’abbandono del padre (Steve Pemberton) che molla la famiglia per farsi una piccola carriera di entertainer con il nome di Peter Conway. Robbie fatica a rimettere insieme i cocci; il vuoto lasciato dal padre – ricomposto solo molti anni dopo – dà la stura a un intreccio di tendenze autodistruttive che solo pochi legami, tra cui quello con l’amatissima nonna Betty (Alison Steadman), sapranno tenere a freno.
Cosa fa il film, e bene, rispetto agli altri biopic
Il resto è storia, dal frenetico e in fondo effimero successo con la madre di tutte le boy band, i Take That, ai rapporti tesi con il manager Nigel Martin-Smith (Damon Herriman) e il leader – ma Robbie non la vedeva così – nemico/amico Gary Barlow (Jake Simmance). Dalla relazione turbolenta con la collega cantante Nicole Appleton (Raechelle Banno) al colossale show a Knebworth, per finire con la droga. Ce n’è tanta, di droga, nel film.
Better Man è un biopic molto oltre la media in fatto di oscenità e rappresentazione degli eccessi: droga, alcol, parolacce. È il disperato bisogno di verità, condiviso da Robbie Williams – qui si occupa del voice over, a metà strada tra un’ironia tagliente e una forte carica emotiva – e Michael Gracey a sottolineare l’estraneità del film dal circuito dei biopic contemporanei, molto più controllati in questo e altri ambiti. Non commette l’imperdonabile errore di Bohemian Rapsody – scelta che paradossalmente gli costerà al botteghino – che racconta Freddie Mercury tenendosi alla larga da qualunque accenno scabroso (dipendenze, orientamento sessuale). Un esempio? Pensate a come Robbie Williams affronta la questione della supposta bisessualità, parla di depressione o rappresenta graficamente – ritmi e estetica da cinecomic – l’istinto autodistruttivo.
Proprio come Piece by Piece, il recente biopic su e con Pharrell Williams costruito su una stupefacente animazione Lego, Better Man sceglie una chiave formale insolita per raccontare la sua versione dei fatti. Il primo, però, oltre a raccontarci che la vita è questione di mattoncini sistemati gli uni sugli altri da ricalibrare a piacimento, in retrospettiva, per dare un senso alle cose, cucina un intrattenimento istruttivo e emozionante ma frenato da un insopprimibile istinto alla gradevolezza. Il secondo non è un biopic modello, e sicuramente è meno originale di quanto la sua inusuale scelta in materia di leading man possa suggerire. In fondo, è la solita vecchia storia di ascesa, caduta e di nuovo ascesa, con stereotipi e convenzioni drammaturgiche di repertorio.
Michael Gracey ha però delle armi notevolissime a sua disposizione, oltre la forza di numeri musicali stupefacenti per ritmo, forza coreografica e pathos, valga per le fantasie oniriche e rivelatrici di “Come Undone” o per la frenesia urbana (con tanto di Take That al seguito) di “Rock DJ”. Da un lato, la franchezza come stella polare. C’è tanta droga, tanto alcol, oscenità varie e l’esposizione piuttosto brutale di una personalità segnata da tendenze distruttive. Poi, ancora più importante, c’è Robbie Williams, la musica e la fame di vita coerentemente imbrigliate da un’attitudine irriverente, scanzonata e scorrettissima cui è impossibile resistere, per la fragile, accattivante onestà con cui è data in pasto al pubblico.