Nel 2018 la sempre più nota casa di produzione e distribuzione cinematografica A24 presenta al Sundance un horror familiare incredibilmente angosciante, misterico, attrattivo e in qualche modo perfino perturbante, nonostante la presenza di teste mozzate, attacchi nervosi, sangue e così via. Il film molto presto sbanca al botteghino, un po’ per il passaparola, un po’ per il consenso critico pressoché unanime. È nato un nuovo maestro del cinema horror d’autore statunitense: si tratta di Ari Aster e il film in questione non è altro che Hereditary.
Laddove quest’ultimo si focalizza sul buio e sul male che nasce nell’oscurità della famiglia, Midsommar – il secondo lungometraggio di Aster che sorprendentemente esce nelle sale internazionali soltanto l’anno successivo -, preferisce la luce, risultando a tutti gli effetti un’opera colossale, dalla durata senz’altro impegnativa e dai chiarissimi riferimenti stilistici e narrativi, tanto al folk horror di Robin Hardy quanto all’esoterismo erotico di Nicolas Roeg. Ancora una volta, il regista raccoglie consensi importanti, senza però convincere appieno come accaduto in precedenza. Vacilla per un attimo… Dopo, il silenzio.
Almeno fino alla fine del 2021, quando le maggiori testate cinematografiche internazionali cominciano a discutere e speculare sul suo nuovissimo progetto, inizialmente intitolato Disappointment Blvd e poi cambiato in Beau Is Afraid (Beau ha paura in italiano) nel dicembre del 2022. Quello che in un primo momento appare come un horror in piena regola muta ben presto in qualcosa di estremamente differente, giungendo al cinema nelle vesti di un dramma esistenziale e biblico dalle enormi pretese e dalla resa filmica magistrale, che manca però il segno rispetto a scrittura, gestione dei tempi narrativi e dialogo autore-pubblico.
Strade di follia
In un primo atto incredibilmente potente, esilarante e grottesco, nonostante la drammaticità del vissuto di Beau (un camaleontico e incisivo – serve dirlo? – Joaquin Phoenix), Ari Aster si concentra sulla costruzione di un universo che rimanda immediatamente al cinema criminale degli anni ’70 e dei primi anni ’80, la cui centralità è rappresentata inevitabilmente dalla città, la metropoli violenta nella quale ogni dinamica è sinonimo di tensione, dinamismo, pericolo, disagio e morte (quella – per intenderci – di titoli quali Il braccio violento della legge, Taxi Driver, Cruising, Manhunter ecc.).
Una scelta che risulta destabilizzante e apparentemente fuori luogo, distante da un cinema molto più ascrivibile direttamente all’horror e meno ad altri generi cinematografici. Eppure, una scelta che convince, diverte e conquista, presentando una condizione di paradossalità grottesca assoluta, nella quale un uomo dalle molteplici paranoie e fobie – tra tutte l’agorafobia e, più generale, la paura dell’altro – si ritrova ad osservare dalle finestre di un appartamento tutto sommato confortevole e protetto, una violenza e follia sempre più estrema che incessantemente dilaga per le strade del quartiere, costringendolo a fuggire da uno psicopatico tatuato o da un pericoloso anziano che girovagando nudo decide di tanto in tanto di uccidere qualcuno con il suo temibile coltello.
Di horror non c’è traccia – almeno, non nella sua accezione più comune. Eppure, volgendo uno sguardo sempre più attento si giunge ben presto ad una nuova consapevolezza: quello del primo atto di Beau ha paura è esattamente l’orrore per come dovremmo intenderlo. È l’orrore del quotidiano, la paura del folle, del pericolo, della dinamica criminale che di giorno in giorno può colpirci tra le strade e che Beau inevitabilmente conosce, sopravvivendole tra attacchi di panico, crisi ed estenuanti sedute di psicoterapia seguite da sensi di colpa e abuso di farmaci.
Paura e divertimento: questi i due protagonisti assoluti del primo atto di un film che non ha alcun timore di risultare respingente, oppure mal riuscito, disorganizzato tanto esteticamente quanto tematicamente, premendo sul pedale dell’acceleratore pur di compiere – in compagnia di uno spettatore sempre più sorpreso, incredulo ma curioso – un viaggio di follia e disperazione tra mondi distantissimi tra loro che, se non convincono come dovrebbero, sicuramente conquistano per audacia, inventiva e gusto dell’assurdo (ormai sempre più raro nel panorama cinematografico attuale).
“Tutto su mia madre”
Dalla città criminale, Aster conduce Beau nei boschi, passando inizialmente per un nucleo familiare piuttosto inquietante, angosciante ed evidentemente disturbato, che se in un primo momento sembra volersi prendere cura di lui rassicurandolo rispetto a paranoie, sensi di colpa e crisi psichiche, diviene rapidamente l’esatto opposto, costringendo Beau ad una condizione di isolamento e prigionia assolutamente tossica, dalla quale non può far altro che fuggire. La famiglia di Roger (Nathan Lane), Grace (Amy Ryan) e Toni (Kylie Rogers), collocata in un non luogo che accresce sempre più la tensione e gli psicologismi tipici del dramma e del thriller, altro non è che l’ennesima conferma della centralità della famiglia come causa generante del male all’interno delle tre interminabili ore di durata.
Non vi è creatura mostruosa, così come antica congrega dai riti inquietanti e mortiferi, perfino strega (o chi per lei) a dar vita all’orrore di Beau ha paura. Piuttosto, è ancora una volta la famiglia: lì, dove tutto ha inizio e dove ciascuno di noi può mostrare il lato migliore o peggiore di sé, senza mai perdere l’amore ed il conforto materno (o paterno); lì, dove il giudizio non esiste e lo sguardo è sempre protettivo, fino all’eccesso e al trauma. Ciò che ha rappresentato la famiglia per Beau non è altro che trauma e ricordo di un male capace di perseguitarlo e condannarlo senza alcuna speranza di rivalsa e rinascita, rispetto ad un’esistenza solitaria e sempre più minata da psicosi, nevrosi e probabilmente perfino da crisi dissociative riconducibili ad una spirale di follia e morte che non ha fine, se non con l’addio di Beau.
Il secondo atto del film, a differenza del primo, vede il protagonista lontano dal caos e dalla violenza della metropoli, anche se ancora una volta in fuga nonostante le numerose ferite – tanto fisiche, quanto psichiche -, perdendosi nei boschi e abbandonando una famiglia per poi trovarne un’altra… e un’altra… e un’altra ancora, fino al giudizio di fronte al pomposo, biblico e involontariamente comico tribunale esistenzialista del finale. Niente più fughe, niente più dinamismo, ma soltanto prigionia ed immobilità: è in queste condizioni che Beau si congeda dallo spettatore, tra incredulità, imbarazzo, assordante silenzio riflessivo e attesa non soddisfatta, per un film che sarebbe potuto essere enorme e che risulta invece pigro e vuoto.
Non è sufficiente la tematica della famiglia e del trauma vissuto ed elaborato da Beau rispetto al suo rapporto disturbato con la madre, così come non basta la magistrale interpretazione di Phoenix o la maestosa fotografia di Paweł Pogorzelski per giustificare tre ore di ricerca cinematografica inutilmente complessa e intellettuale, in qualche modo perfino intimidita rispetto al genere cui vorrebbe – e dovrebbe – appartenere (l’horror), che inevitabilmente scompare al termine del primo atto senza più fare ritorno, lasciando spazio ad un gioco di dramma e teatralità sempre più indeciso e molto poco funzionale.
Beau ha paura non è altro che una lunghissima seduta di psicoterapia che muovendosi tra lirismo e gusto per il paradosso e l’assurdo vorrebbe farsi logorante e biblicamente riflessiva, risultando invece pedante, inconcludente e a tratti perfino fastidiosa. Una seduta a cui molti, dopo la visione, potrebbero rimpiangere di aver presenziato.