Chi lo avrebbe mai detto che un giorno sarebbe toccato ad una come Greta Gerwig il compito di portare finalmente Barbie nel mondo reale… Eppure, a ben rifletterci, la cosa non dovrebbe sorprendere più di tanto: la regista, sceneggiatrice e attrice statunitense è riuscita in brevissimo tempo – e con all’attivo soltanto due esperienze dietro la macchina da presa (Lady Bird del 2017 e Piccole donne del 2019) – ad imporre su Hollywood il suo sguardo personalissimo, muovendosi sempre al confine tra pop e intellettualismo nella ricerca – quanto mai urgente – di un modo tutto nuovo di raccontare l’universo femminile.
In Barbie, sicuramente uno dei film più attesi dell’anno (che debutterà nelle sale italiane a partire dal 20 luglio e in quelle americane dal 21, nella speranza di riuscire a risollevare le sorti del box office mondiale), Gerwig si diverte a sperimentare con il mito della creazione, compiacendosi della ricchezza ma anche della stranezza del vasto materiale di partenza per mettere a punto una parodia degli “usi e costumi” della bambola più venduta al mondo (commercializzata per la prima volta da Mattel nel 1959), ma soprattutto della sua complessa eredità, spesso sottovalutata, forse mai realmente compresa: Barbie Land, l’universo immaginario popolato da tutte le iterazioni possibili e immaginabili di Barbie e del suo fidanzato, Ken, diventa quindi lo strumento per andare a solleticare quanto di più ridicolo possa esistere in una secolare e controversa iconografia, ma anche per rimarcare – una volta di più – tutte le contraddizioni della nostra società sessista.
Greta Gerwig è consapevole che buona parte di un film dedicato a Barbie deve necessariamente fare leva su un comparto visivo di grande valore, dove nessun dettaglio può essere lasciato al caso: grazie alle scenografie di Sarah Greenwood (La bella e la bestia, L’ora più buia) e ai costumi di Jacqueline Durran (già dietro gli abiti di Piccole donne), la regista originaria di Sacramento definisce con meticolosità un sogno vivido e bizzarro in cui prende letteralmente vita lo sconfinato e indimenticato archivio della linea di fashion doll concepita dall’azienda statunitense, un conglomerato di prodotti di successo, idee mediocri e merce fuori catalogo (appare persino Barbie Incinta!), focalizzato sul vivere il momento presente senza mai ricordarsi del passato e – soprattutto – preoccuparsi del futuro, muovendosi all’interno di un paradiso rosazzurro con fare ingenuo e noncurante.
Barbie Land è l’utopia femminista che si oppone ad un società patriarcale – quella reale! – radicata in un’ingiustizia sistemica e pervasiva, dove la protagonista è la Barbie interpretata da una splendida e calzante Margot Robbie e la sua controparte è – ovviamente – Ken, quello interpretato con impressionante umorismo ma anche tantissimo cuore da un Ryan Gosling semplicemente irresistibile: la Barbie di Robbie è lo stereotipo di tutti gli stereotipi, l’idea primigenia alla base della rivoluzionaria intuizione dell’imprenditrice Ruth Handler (responsabile della creazione della prima Barbie), mentre il Ken di Gosling è il bambolotto totalmente inconsapevole delle proprie responsabilità e potenzialità.
Un colpo al cerchio e uno alla botte
Dopo che una serie di pensieri esistenziali iniziano ad ostacolare la sua vita “di plastica”, Barbie parte insieme a Ken alla scoperta del mondo reale, perdendosi in una Los Angeles caotica e assolata, specchio di una realtà modellata su un patriarcato schiacciante, pronta a distruggere il concetto di sé della nostra Barbie (incluso il valore che la stessa bambola pensava le avessero sempre attribuito le bambine di tutto il mondo) e a rafforzare per contro quello di Ken. Sotto molti aspetti, il film sembra voler intraprendere un discorso già intavolato da Greta Gerwig grazie ai suoi precedenti lavori, esplorando temi come il tortuoso viaggio verso l’autodefinizione sullo sfondo di una società ossessionata dalle categorie e le relazioni mutevoli tra madri e figlie.
Questa volta, però, la scrittura della regista (che ha firmato la sceneggiatura insieme al sodale Noah Baumbach, partner in crime dentro e fuori dal set) risulta brillante a sprazzi, decisamente poco incisiva. Ciò che in Barbie sembra essere davvero inafferrabile – per assurdo! – è proprio il suo messaggio: da quale parte della staccionata si vuole stare? Per chi si fa realmente il tifo? Quali schemi si vogliono effettivamente ribaltare? Ma soprattutto, per chi è stato pensato e realizzato questo film? La sensazione, a più riprese, è che Gerwig abbia voluto dare un colpo al cerchio e uno alla botte, nel tentativo di non deludere le aspettative di nessuno (o forse di non andare ad urtare nessuna sensibilità).
Atteso come si attende l’arrivo del Messia (da tutti, nessuno escluso, pubblico ed esercenti compresi, nella speranza di ribaltare le sorti di un botteghino sempre più in sofferenza), Barbie è una creatura ibrida, come forse lo è sempre stata la stessa bambola, capace sì di essere tutto quello che ha sempre voluto, ma anche di passare dallo status di oggetto a quello di soggetto, addirittura di travalicare i confini dello spazio/tempo e trasformarsi da inumana ad umana. Eppure, la sensazione finale è quella di un film strabordante di idee e proprio per questo totalmente fuori fuoco, che mescola tanti generi senza mai esserne veramente uno, che pasticcia con il ritmo altalenante e, soprattutto, che manca di definire in maniera precisa il suo obiettivo.
In Barbie non vengono fornite risposte esaustive, ma soltanto conclusioni fin troppo generalizzate, ridondanti e anche un po’ banali, a conferma che il monito di Gerwig non era probabilmente quello di ergersi a manifesto contro la misoginia, ma piuttosto a rivendicazione dell’individualismo (che riguardi l’uomo o la donna, non sembra importare più). Il messaggio, però, non arriva limpido ma confuso, tradendo le aspettative create e lasciando che le emozioni – al pari di riflessioni assai più acute – si sgretolino senza mai concretizzarsi nel profondo.