“Tutti vengono a Hollywood/Come potrebbe farti male quando sembra così bello?” cantava Madonna in una delle sue celebri hit (“Everybody Comes to Hollywood/How Could It Hurt You When It Looks so Good?”), descrivendo in poche strofe quella fabbrica dei sogni alla quale tutti ambiscono con ammirazione e stupore, ma che può rischiare di ferire dolcemente, stritolando tra le spire dorate delle sue contraddittorie illusioni.
Luci e ombre disegnano, da sempre, i contorni della mecca americana del cinema, nata come un sobborgo di Los Angeles sovrastato dalla mastodontica scritta Hollywoodland, ad indicare una sconosciuta terra promessa dell’utopia nella quale tutti possono conquistare il proprio posto al sole, anche se a caro prezzo (come ricordava la commedia A che prezzo Hollywood? di George Cukor, antesignana della più nota È nata una stella); ma come del resto suggeriva anche Kenneth Anger con la sua “bibbia” spuria, “Hollywood Babilonia“, nella quale – in due volumi – ripercorreva vizi privati e pubbliche virtù della Golden Age della settima arte americana, tra scandali e orrori nascosti che hanno costruito il mito dei selvaggi anni a cavallo tra il cruciale passaggio dal muto al sonoro.
E adesso c’è anche un film sfrontato, roboante ed eccessivo che ripercorre questo preciso arco narrativo, aggiungendosi alla lista di pellicole che, nel corso della storia, hanno riflettuto sulla macchina-cinema stessa e sulla drammatica transizione appena citata: stiamo parlando di Babylon, l’ultima fatica dell’enfant prodige Damien Chazelle (Premio Oscar per La La Land), che orchestra un ensemble di ottimi attori, tra i quali spiccano le star Margot Robbie e Brad Pitt (che tornano a lavorare nello stesso film dopo C’era un volta a… Hollywood di Tarantino), affiancati da Diego Calva, Max Minghella e da Tobey Maguire (quest’ultimo in un cameo).
Tanti volti caratteristici più o meno noti, coinvolti in un racconto corale che oscilla tra il dramma, il black humour e i temi cari al melò, sullo sfondo della Hollywood degli anni ’20; una storia di ambizioni smisurate e di eccessi oltraggiosi, che ripercorre l’ascesa e la caduta di questa teoria di personaggi in un’epoca di sfrenata caratterizzata da decadenza e depravazione nella sfavillante fabbrica dei sogni.
Un atto d’amore nei confronti del cinema
Babylon è un atto d’amore nei confronti del cinema da parte di chi lo ama e lo respira quotidianamente; un film eccessivo che, come tutti i caratteri eccessivi appunto, non può che essere divisivo: o lo si ama, o lo si odia. Ed entrambe le reazioni si vivono, sulla propria pelle, senza mezze misure, inconsciamente consapevoli della richiesta implicita che lo stesso Chazelle (autore anche della sceneggiatura) sembra rivolgere agli spettatori: siate onesti, cercate la verità.
E proprio questo aspetto sembra essere l’ago nel pagliaio affogato in una babele di menzogne e illusioni che il regista americano costruisce con navigata maestria e sicurezza, seducendo la percezione e frammentandola, ammaliando fino a ferire gli occhi del pubblico che finisce per soffrire, accogliendo (almeno in parte) i dolorosi tormenti e le malinconie struggenti che lacerano gli animi e le coscienze dei personaggi sullo schermo.
Babylon è, letteralmente, una Babele caotica e ambiziosa di volti e situazioni, uno smaliziato e turbinoso Hellzapoppin’ vissuto oltre i limiti consentiti, noncurante del concetto stesso di fine; ma quando arriva, inesorabile, il momento del tracollo, ecco che la torre si disgrega davanti agli occhi increduli dello spettatore trascinandolo in una vertiginosa caduta libera senza rete, che ci porta dall’acme fin nel cuore di tenebra di una città – Los Angeles – che è tanto madre quanto matrigna, accogliente e dispotica, capace di guardare le stelle dimenticandosi del brulicante formicaio che si agita sotto i propri piedi.
Per raccontare la Hollywood degli anni ’20, così rutilanti e selvaggi, disinibiti e sfrontati, Chazelle sfodera le proprie abilità, il gusto (e l’orecchio) per il Jazz e uno sguardo che sembra rivolto alle atmosfere letterarie di Francis Scott Fitzgerald, a quel mondo dorato talmente fragile da essere pronto ad infrangersi solo pochi anni dopo, tra gli spettri della Grande Depressione e della Seconda Guerra Mondiale. Chazelle offre, al cinema, ciò che Scott Fitzgerald ha regalato alla letteratura: l’istantanea di una generazione perduta, di un’epoca d’oro destinata a bruciare in fretta trascinando, nel proprio rogo, tutti coloro che ne hanno fatto parte.
E nel film sono un manipolo di storie e di (anti)eroi i protagonisti involontari della Storia, un gruppo di sognatori che si sono spinti oltre i limiti vivendo la propria illusione, prima di rendersi conto della sua stessa vacuità. Attori, registi, produttori, assistenti di produzione, tecnici, fonici, critici, giornalisti, sceneggiatori… c’è spazio per rappresentare tutti in Babylon, che Chazelle immortala come l’affresco definitivo di un mondo perduto ma oltremodo moderno, idiosincratico proprio perché così vicino a noi, che ci riguarda e parla la nostra stessa lingua.
È tutta un’illusione… dannatamente realistica
Lo spettatore lo capisce bene dalla ricostruzione degli anni ’20, così barocchi, opulenti e lascivi, ma anche dalle continue citazioni meta-cinematografiche che si rincorrono come in un labirinto degli specchi: è tutta un’illusione quella di Babylon, eppure è così dannatamente realistica. Il mondo nato dalla fantasia di Damien Chazelle è realistico ma non eziologico, più vicino all’iconografia che alla realtà effettiva, ma forse è questa la vera essenza anche di Hollywood, che non è mai stata rappresentata in modo così decadente e affascinante; sullo schermo si muovono simulacri e incarnazioni, “simboli” che rimandano ad altro guadagnandosi la libertà di narrare un racconto di fantasia attraverso le immagini, plausibile ma libero dalle strette regole della biografia o del documentario.
E il cinema, ancora una volta, torna a riflettere se stesso e su se stesso per ritrovare nuova linfa vitale, omaggiando il passato per trovare una nuova forma, cercando di sopravvivere all’arrivo del futuro: Viale del tramonto, Cantando sotto la pioggia, Cabaret sono solo alcuni dei titoli che Chazelle cita attraverso un tributo visivo, riconfermando non solo il suo amore per alcuni generi (il musical, soprattutto) ma quello, in generale, per il cinema che deve vivere in sala, che parla un linguaggio specifico che necessita della proiezione sullo schermo d’argento per poter essere apprezzato appieno.
Babylon conosce la grammatica del cinema e Chazelle la sperimenta in ogni forma, scegliendo il formato giusto o l’inquadratura perfetta per raccontare un momento esatto, perché un campo lungo o un totale fanno la differenza in un attimo cruciale, ricordandoci quanto il cinema sia scrittura per immagini basata su unità di tempo (le inquadrature) che seguono uno storytelling preciso, fissato in partenza e messo nero su bianco. Il cinema è figlio delle parti, va ammirato a distanza per apprezzarne la visione d’insieme e per capire quanto un particolare sia significativo e non casuale: nello stile del regista ogni frammento è fondamentale ai fini narrativi, anche quelli più infinitesimali che rischiano di confluire in scene ripetitive, a tratti autocompiaciute, forse troppo citazioniste, inclini all’exploitation con sferzate pop.
La durata mastodontica non si trascina, lenta e pigra, come un elefante (lo stesso che apre il film) ma rapsodica e nervosa, frammentata (appunto) come il ritmo del ragtime, dello swing e dell’indiavolato Jazz che si fonde con le immagini (grazie alla colonna sonora firmata dall’ormai sodale Justin Hurwitz) fino a creare un continuum unico e trascinante, spregiudicato e dolente. Perché in fin dei conti, Babylon è ancora una volta un film incentrato sui sogni, sulla cruda realtà che costringe a vivere di illusioni fino a perdersi dentro di esse; ma è anche un film che immortala un cielo popolato di stelle cadenti, pronte a sparire nella notte lasciando, dietro di loro, solo la scia di un desiderio.