Dopo settimane di dominio incontrastato al botteghino statunitense, arriva nelle sale italiane Baby Boss, l’ultima pellicola animata targata DreamWorks. La storia parla di Timothy Templeton, un bambino di sette anni dalla fervida immaginazione, che inaspettatamente vede la sua vita cambiare: l’improvviso arrivo di un fratellino sconvolge infatti la sua ormai stabilita routine famigliare e fa vacillare la fiducia verso i propri genitori.
Tuttavia, la situazione è perfino più strana di quanto appaia, poiché il neonato è in realtà Baby Boss, un impiegato sotto copertura di un’azienda celeste incaricata di produrre in serie nuovi bambini. Inizialmente in conflitto, Tim e Baby Boss si troveranno costretti ad allearsi per il bene comune, scoprendo anche di provare affetto l’uno per l’altro.
Scritto dallo sceneggiatore di due episodi di Austin Powers e diretto dal regista dell’intera saga di Madagascar, Baby Boss si presenta fin da subito come una commedia d’animazione intelligente e divertente, indirizzata chiaramente ad un audience infantile ma capace di far sorridere anche un pubblico più maturo.
Nonostante non proponga trame complesse e sfaccettate come le recenti produzioni Disney/Pixar, l’ultimo lavoro DreamWorks offre un campionario di battute divertenti e di momenti esilaranti, che non fanno eccessivamente pesare il circoscritto target di riferimento. Anche la morale, necessaria ma spesso fin troppo ingombrante in prodotti di questo taglio, risulta perfettamente calibrata con il contesto narrativo, dispensando non eccessive puntualizzazioni sull’importanza della famiglia.
Vero mattatore e centro focale dell’umorismo è tuttavia il giovane protagonista: Baby Boss. Già sulla carta una figura vincente per il marketing affino, il neonato in abito scuro appare infatti come il personaggio più riuscito della storia, alternando sguardi dolci a comportamenti adulti. La sue caratterizzazioni fisiche – dalla testa sproporzionata ai primi piani del suo sedere – permetto altresì una sottile ipertrofia visiva, che si inserisce perfettamente nell’equilibrato contesto.
Inoltre, il rapporto di amore e odio con il fratello Tim accresce la riuscita di gag dalle tematiche più svariate, capaci di chiamare in causa l’amore famigliare, l’ossessione comune verso bambini e cuccioli e perfino le ideologie cristiane.
Non da ultimo, assolutamente lodevole è la più concreta resa visiva. Oltre all’abituale animazione computerizzata che rilegge la realtà ricorrendo a stili generalmente comuni, interessanti sono alcuni passaggi più particolari. Anzitutto, le numerose parentesi immaginarie di Tim intrecciano estetiche stilizzate a sfondi volutamente in 2D, perfetti per etichettare tali sequenze come momenti-altri rispetto alla story-line principale.
Parallelamente, il breve flashback che racconta la vita dell’antagonista Francis E. Francis viene narrato come se fosse un enorme libro pop-up, riprendendo uno stile di disegno che riecheggia gli intervalli in stop motion de Il Piccolo Principe.