È un fatto che il successo senza precedenti di Avatar nel 2009 abbia fortemente influenzato l’industria cinematografica hollywoodiana degli ultimi tredici anni, andando a plasmare non solo la percezione dell’impiego e delle potenzialità del digitale agli occhi dello spettatore (posto dinanzi ad un modo di fruire dello spettacolo sul grande schermo completamente rinnovato), ma anche il concetto di distribuzione e – soprattutto – di esperienza in sala, meraviglioso rito collettivo che oggi più che mai si fatica tantissimo a preservare (a causa non solo della crisi generata dalla pandemia di Covid-19, ma anche dello schiacciante predominio delle piattaforme di streaming).
Dall’uscita del primo Avatar ad oggi, sono tantissime le cose che sono cambiate… Tra queste, è impossibile non considerare come sia cambiata la figura dello spettatore, quanto siano cambiati i suoi gusti e, ancora di più, le sue esigenze. Da sempre destinatario finale dell’opera cinematografica, negli ultimi anni la centralità che un tempo sembrava avere il pubblico della sala è iniziata lentamente a scemare, complice un gioco ai limiti del perverso che viene alimentato da almeno due parti fondamentali: tanto dagli stessi spettatori, quando scelgono volontariamente di non andare al cinema e di fruire della visione di un film utilizzando altri mezzi, quanto dalle stesse major, che spesso e volentieri assecondano delle logiche distributive che sono francamente difficili da comprendere.
Nonostante quest’evoluzione significativa ma al tempo stesso allarmante, fortunatamente ci sono registi che ancora credono nella sala come istituzione sacra da tutelare e proteggere, nel potere sconfinato delle immagini che si susseguono sul grande schermo, nella visione di un film come esperienza collettiva irrinunciabile, in grado di unire e arricchire le persone. James Cameron è sicuramente uno di quei registi, e con Avatar: La Via dell’Acqua – disponibile nelle sale italiane dal 14 dicembre – dimostra di essere ancora uno dei pochi al mondo a considerare la narrazione per immagini come un evento unico e insostituibile, che per essere davvero apprezzato, deve essere goduto necessariamente al buio di una sala cinematografica.
Dopo un periodo in cui siamo stati letteralmente invasi da storie più piccole, più intime, storie che potremmo definire “di pancia e di cuore” (assolutamente necessarie e meritevoli di attenzione e rispetto al pari di tutte quelle opere che vengono definite “monumentali” con fin troppo facilità), il regista di classici intramontabili come Aliens – Scontro finale, Terminator 2 – Il giorno del giudizio e Titanic ci ricorda che il blockbuster, il cinema d’intrattenimento, quello mainstream capace di mettere d’accordo tutti, è una possibilità ancora reale e un’esperienza che ha ancora molto da offrire se coadiuvata da creativi ancora desiderosi di mettersi in gioco e di rischiare, e da spettatori disposti ad aprire le proprie menti e i propri cuori per lasciarsi meravigliare ancora una volta dal potere delle grandi storie, che diventano tali proprio per i mezzi attraverso cui si sceglie di raccontarle.
Avatar: La Via dell’Acqua è ambientato a più di dieci anni di distanza dal primo film: Jake Sully (Sam Worthington) e Neytiri (Zoe Saldana) sono ora due genitori amorevoli che cercano di fare tutto il possibile per difendere il clan Omaticaya e tenere unita la loro famiglia (composta da tre figli biologici e due adottivi, tra cui Kiri, figlia biologica dell’avatar della Dott.ssa Grace Augustine, interpretata da Sigourney Weaver). Quando una serie di eventi imprevisti li spinge ad allontanarsi dalla loro casa, i Sully si vedono costretti a viaggiare attraverso le vaste ed inesplorate distese di Pandora, fuggendo infine nel territorio detenuto dal clan Metkayina – con a capo Tonowari (Cliff Curtis) e la sua compagna Ronal (Kate Winslet) -, che vive in armonia con gli oceani circostanti. Jake e la sua famiglia dovranno imparare non solo a sopravvivere nel pericoloso mondo acquatico, ma anche a fare i conti con alcune scomode dinamiche per ottenere l’accettazione da parte della loro nuova comunità, mentre incombe la rinnovata minaccia del colonnello Miles Quaritch (Stephen Lang), tornato sotto forma di avatar autonomo sottoposto ad un processo di ricombinazione, intenzionato a vendicarsi nei confronti di Jake.
L’impossibile che si materializza sullo schermo d’argento
James Cameron inizia adesso, con questo primo sequel, ad impostare una vera e propria mitologia di proporzioni bibliche, nella speranza che il pubblico non lo tradisca e che gli incassi giochino a suo favore, in modo da garantire la continuità della saga (sono previsti, infatti, altri tre sequel tra il 2024 e il 2028, ma il quarto ed il quinto film dipenderanno esclusivamente dagli incassi del secondo e del terzo). Per assicurarsi non solo un ritorno dietro la macchina da presa in grande stile, ma anche la possibilità di poter continuare a raccontare l’universo di Avatar, il regista canadese non ha potuto fare altro che alzare nuovamente l’asticella delle sbalorditive prestazioni del 3D, compiendo un ulteriore ma significativo passo in avanti rispetto al predecessore e realizzando uno spettacolo ancora più immersivo, a tratti fantasmagorico, testimonianza tangibile dell’impossibile che si materializza sullo schermo d’argento.
In Avatar: La Via dell’Acqua, una storia abbastanza semplice, lineare e anche piuttosto prevedibile che aveva preso forma ben 13 anni fa, viene ampliata e arricchita in maniera coinvolgente, anche se mai davvero originale o sorprendente. Dopo aver lasciato il suo corpo umano ed essersi trasferito per sempre nel suo avatar alla fine del primo film, ora Jake Sully si è ufficialmente stabilito su Pandora, e assieme alla sua amata Neytiri è riuscito a mettere su una grande famiglia: di conseguenza, il cuore pulsante della storia diventano proprio i figli della coppia, questa nuova generazione di piccoli grandi eroi che – specie nell’atto finale del film – si farà specchio di tutta la forza e il coraggio tramandatoli dai propri genitori (la cui rilevanza all’interno della storia andrà proporzionalmente a ridursi).
È così che questo sequel si fa grande metafora dell’importanza dei legami familiari e del ruolo che ognuno assume all’interno del proprio nucleo, che non viene misurato in base a quanti pericoli si scelgono di affrontare o a quante battaglie si decidono di combattere, ma piuttosto in base a quanto si è disposti a sacrificare sé stessi per tenere al sicuro gli altri. Naturalmente, la tematica ambientalista rimane la spina dorsale della più ampia trama de La Via dell’Acqua, in cui riescono però a trovare spazio anche la vendetta, il bisogno di trovare il proprio posto nel mondo, l’importanza di riuscire a convivere pacificamente con gli altri e, naturalmente, la capacità di riuscire a vedere l’altro per quello che realmente è (“I See You”, ormai vero e proprio mantra degli abitanti di Pandora). La mitologia di Avatar si arricchisce, così come il ruolo che la famiglia Sully occupa al suo interno, nonostante la sceneggiatura – scritta questa volta a sei mani da Cameron insieme a Rick Jaffa e Amanda Silvernon – non si erga certamente a simbolo di qualità e innovazione (ma questo era un “problema” riscontrabile anche nel primo film).
Parallelamente, il vibrante ecosistema sottomarino della tribù marina di Metkayina che ospita la famiglia Sully da un certo punto della storia in avanti, permette a Cameron di sbizzarrirsi ancora una volta con le immagini e di sfiorare la dimensione onirica: la rappresentazione della vita sott’acqua, frutto di un lavoro a dir poco meticoloso, rafforza infatti la convinzione e la sensazione che Pandora sia un essere vivente, infondendo nell’animo e nello sguardo di chi osserva sentimenti di pace e armonia, oltre che di meraviglia e stupore. E anche quando questa calma apparente viene interrotta dall’azione più concitata e frastornante, non c’è mai la sensazione di una messa in scena caotica, ma al contrario sempre definita e leggibile, elettrizzante in ogni suo passaggio, in grado di catalizzare completamente l’attenzione. Da questo punto di vista, il risultato finale è abbagliante: gli sforzi di Cameron si traducono in livelli di eleganza e spettacolarità ancora più impressionanti rispetto al passato; l’obiettivo ultimo rimane quello di galvanizzare lo spettatore al fine di restituirgli un’esperienza che lo investa e lo coinvolga in maniera totale, riuscendo nel mezzo a concedersi anche il lusso di strizzare l’occhio a quel tipo di pubblico più attento, maturo, consapevole e appassionato (tra Aliens e Titanic, infatti, si sprecano gli omaggi al cinema stesso del regista).
Nonostante l’ambiziosa durata (3 ore e 10 minuti) pesi innegabilmente sull’equilibrio della struttura narrativa, Avatar: La Via dell’Acqua è comunque una spanna sopra rispetto al suo predecessore, più ricco tanto in termini narrativi quanto visivi. Un sontuoso ritorno su Pandora che rimane un indiscutibile esempio di cinema ammaliante, stracolmo di spettacolo e di cuore, che riesce a superare se stesso rimanendo fedele alla poetica del suo autore. Al di là di alcuni evidenti limiti (ascrivibili unicamente al tempo della storia), James Cameron è riuscito ancora una volta nell’impresa di dare concretezza ad una specie di sogno a occhi aperti. Così, La Via dell’Acqua si impone come puntuale promemoria di ciò che è capace di fare il cinema quando osa pensare in grande, lasciandoci ancora una volta esterrefatti, a bocca aperta.
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