L’uscita di Army of the Dead segna per Zack Snyder un ritorno alle origini. A distanza di 17 anni dal suo esordio cinematografico, il remake de L’alba dei morti viventi del compianto George A. Romero, il regista, affermatosi negli anni soprattutto grazie ai suoi cinecomics (da Watchmen alla “trilogia” DC per la Warner), dirige nuovamente uno zombie movie, per certi versi rivoluzionando la sua idea di cinema. Celebre soprattutto per la sua estetica dark e (anche fin troppo) seriosa, con il suo nuovo film, dal 21 maggio disponibile su Netflix, Snyder si concede una divagazione quasi ironica, smorzando i toni cupi dell’horror splatter con una narrazione e una messa in scena rigorosamente (e gustosamente) eccessive.
In un futuro molto prossimo al nostro, una misteriosa epidemia che trasforma gli esseri umani in zombie ha ridotto la città di Las Vegas a perenne “zona rossa” (tanto per usare una definizione con cui abbiamo imparato a convivere da più di un anno a questa parte). Tagliata fuori dal resto del mondo dall’esercito americano, che intorno ad essa ha costruito un perimetro invalicabile, la città più famosa dello Stato del Nevada è divenuta ormai da qualche anno una colonia di zombie che, al suo interno, hanno edificato una nuova tipologia di società.
Quando un misterioso uomo d’affari (Hiroyuki Sanada) decide di recuperare qualche milione di dollari contenuto nel caveau di uno dei tanti casinò della città, sceglie di affidarsi a un nutrito gruppo di mercenari. Capitanati dal burbero Scott (Dave Bautista), che nel frattempo deve anche cercare di recuperare il rapporto con la figlia Kate (Ella Purnell), il belligerante gruppo di soldati (non professionisti) penetra all’interno della città per compiere la propria missione. Non sarà naturalmente una passeggiata.
Fin dalla prima sequenza, che accompagna gli sberluccicanti titoli di testa, Army of the Dead “tradisce” la volontà di non prendersi veramente sul serio. E questo, dal punto di vista della “poetica” di Zack Snyder, è già una importante novità. Dimenticate il tragico e tronfio fatalismo di Zack Snyder’s Justice League, il nuovo film Netflix del regista è un’ironica rivisitazione del genere che, se da un lato sembra strizzare un po’ l’occhio al cinema politico di Romero (l’immagine decadente di un non luogo quale Las Vegas), dall’altra utilizza un registro comico-demenziale-granguignolesco sempre votato all’eccesso.
Vedere per credere il “motivo scatenante” da cui prende le mosse il racconto – su cui, ovviamente, soprassediamo per evitare fastidiosi spoiler -, ma anche il variopinto stuolo di non morti che Army of the Dead schiera: perché utilizzare solo generici zombie quando puoi avvalerti di una tigre e un cavallo non morti (quest’ultimo chiaramente cavalcato dai leader dei mangiauomini)? Ed è proprio la scelta di puntare molto su tale registro che dà un senso al film di Snyder, rendendolo quantomeno guardabile. Perché, se discostiamo per un attimo lo sguardo sul resto, il giudizio non può che essere impietoso.
Al di là della poca incisività (eufemismo) delle sequenze drammatiche, della lunghezza eccessiva (quasi due ore e mezza!) e delle molte pause narrative (specie nella prima parte), a stupire in negativo è soprattutto la disomogeneità di un film che a volte sembra procedere eccessivamente per accumulo, senza riuscire a dare mai la sensazione di una compiutezza narrativa (la sceneggiatura è dello stesso Snyder, Shay Hatten e Joby Harold), nonché la presenza di buchi di sceneggiatura che si espandono durante il corso del racconto fino a diventare delle vere e proprie voragini (quella finale, che riguarda un personaggio secondario, è da matita blu!).
Eppure alla fine non lo si riesce a stroncare, Army of the Dead. Sarà per quella sua aria da B-Movie mascherato – con annessi effettacci visivi -, sarà per i già citati eccessi (un profluvio di sangue, morti ammazzati – nelle maniere più originali oltretutto -, teste che si spappolano, ecc.), sarà forse per un cast tutto sommato efficace, a cominciare da Dave Bautista, chiaramente non perfetto quando è chiamato a dare uno “spessore” al suo personaggio, però a suo agio nelle sequenze più dinamiche e in quelle tendenti al comico.
E sarà forse perché, per chi scrive, Zack Snyder in carriera non ne ha mai azzeccata una, con quella sua capacità di rovinare persino capolavori conclamati (che cosa hanno fatto di male Alan Moore e Dave Gibbons per meritarsi quel pastrocchio di adattamento che è Watchmen?), ragione per cui di fronte a un film leggermente sopra la media – rispetto agli altri realizzati dal regista – la tentazione è quella di concentrarsi più sui pregi che sui difetti.