Le coordinate attraverso le quali leggere Anatomia di una caduta ce le danno abbastanza presto Sandra (Sandra Hüller) e Vincent (Swann Arlaud), il suo avvocato. Sandra è accusata di aver ucciso il marito (Samuel Theis) lanciandolo dalla finestra dopo una colluttazione. Sono in una conversazione privata e si difende con veemenza ribadendo di non essere stata lei ad assassinarlo, ma che si sia suicidato o sia caduto. Vincent però le risponde: «Questo non è il punto».
Ecco, la ricerca di un colpevole non è il punto del film premiato con la Palma d’oro al Festival di Cannes 2023, riconoscimento assegnato solo per la terza volta a una regista donna, ovvero Justine Triet. Il punto di Anatomia di una caduta è un altro. È, come già annuncia il titolo, la dissertazione sull’evento stesso. È la struttura di influenze e potere di una coppia disgregatasi sotto il peso della più fatale delle conclusioni – la morte dell’amore, letteralmente. È, non in ultima istanza, l’elaborazione millimetrica di un meccanismo cinematografico specifico, quello del film giudiziario, o courtroom drama che si voglia.
I tanti grigi di una storia torbida
Perché, sgomberiamo subito il tavolo dalla questione: non scopriremo mai se Sandra ha compiuto o meno il fatto. Si arriverà a un pronunciamento della giustizia, ma non ad una presa di posizione drastica della sceneggiatura di Triet ed Arthur Harari nei confronti di questa donna. Anatomia di una caduta scava nei tanti grigi di una storia torbida, fatta di memorie che si inabissano e poi tornano a galla, di testimonianze corrotte dai pregiudizi e delle continue ambiguità di una protagonista tutto fuorché simpatica o conciliante nei confronti dello spettatore.
Sandra Hüller regala forse la sua miglior performance fino ad ora ed il processo che viene mosso al suo personaggio è un processo dove la morte di Samuel è solo una risultante. Ad essere messa sotto i riflettori, e di conseguenza sotto accusa, è piuttosto la discrepanza di equilibri in un matrimonio avvelenato da incomprensioni e rancori. Sandra è infatti una scrittrice abbastanza quotata, mentre Samuel coltiva il desiderio di cimentarsi anch’egli a tempo pieno nella scrittura ma è in realtà stressato dall’educazione a casa che impartisce al figlio (Milo Machado Graner).
I tanti vizi di forma di un giudizio
C’è un evidente dislivello nei rapporti di forza di coppia, dove però stavolta è Sandra il polo forte, la carica accentratrice ed egoriferita. La raffinatezza dello script di Anatomia di una caduta – presentato alle 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma e in arrivo nelle sale il 26 ottobre – sta nella capacità di intrecciare la ricerca dell’oggettivo, a cui è chiamata la giustizia, al tranello della valutazione soggettiva che emerge un poco alla volta, in cui cedono lo spettatore e forse anche la giustizia stessa.
Allora la forza motrice dell’opera di Triet si rivela pure nella sapienza con cui dosa al millimetro il venire a galla e il palesarsi dei tanti vizi di forma di un giudizio in cui la donna è messa in accusa ancor prima della persona – la si farà testimoniare in una lingua non sua, si discuterà del suo orientamento sessuale, della sua morale, dei suoi sogni e fantasie.
Non c’è un orizzonte certo, chiaro, visibile a cui guardare e nel quale trovare la stabilità. A questo proposito non è un caso che un testimone chiave del processo sarà il figlio della coppia, ipovedente e che nell’affidarsi agli altri sensi faticherà a trovare risposte solide ai suoi sospetti e ricostruzioni. Più si procede in avanti più Anatomia di una caduta si mostra come un dispositivo a cuore aperto. Dialoga sì con il tema di una società che osserva il femminile ancora con sospetto obliquo e ostracizzante, ma non nasconde mai nemmeno il gusto dell’operazione prettamente ludica e d’intrattenimento dello strumento cinematografico, che qui è struttura ossea, carne e sangue.
Insomma ad averne, di film come quelli di Justine Triet. Orologi così precisi da segnare l’ora esatta secondo dopo secondo, così complessi e così completi da non dover rinunciare mai alla compresenza di un concetto a cui affiancare la soddisfazione dello stare seduti in una sala cinematografica, anche per due ore e mezza. Chapeau.