L’amusia è, tecnicamente, un disturbo neurologico che comporta una percezione distorta (e soggettiva) dei suoni, con la diretta conseguenza di una totale incapacità biologica di comprendere, eseguire e apprezzare la musica. Una patologia scoperta relativamente di recente e drammatica che ha sollecitato la creatività del regista Marescotti Ruspoli, che ha scelto di incentrare il suo primo lungometraggio su questo tema per poi ampliare l’universo narrativo mostrato, trasformando in tal modo la malattia in una metafora dell’incomunicabilità moderna.
Amusia è il risultato finale, un’opera sospesa tra i generi (secondo lo stesso regista) perché impossibile da ricondurre entro i rigidi confini di canoni e modelli specifici: non è solo una rom-com, non è assolutamente un film drammatico, è anche un coming of age e forse la definizione più calzante è dramedy, indicando quel genere ibrido che mescola insieme dramma e commedia, in un delicato equilibrio di ritmo e forma. Il film, disponibile nelle sale dal 27 aprile, il film vede protagonisti i giovani Carlotta Gamba (America Latina) e Giampiero De Concilio affiancati da due veterani (nei panni dei genitori di Livia, il personaggio della Gamba) come Maurizio Lombardi (1994, Rapiniamo il duce) e Fanny Ardant (La belle époque).
L’opera di Marescotti Ruspoli affronta la patologia con delicatezza, per provare a raccontare “altro” pur affondando le proprie radici nella realtà che ci circonda: come espediente narrativo sfrutta una storia d’amore tra una ragazza che “scappa” dalla musica (Livia) perché affetta da amusia, un disturbo neurologico, e un ragazzo che al contrario “sopravvive” proprio grazie alla musica. Un’infanzia solitaria, passata a difendersi dai pregiudizi altrui, spingerà la protagonista Livia (Gamba) a fuggire lontano dalla sua famiglia e ad addentrarsi in un mondo di provincia, dimenticato e dalle sfumature surreali nel quale un ragazzo combatte la propria solitudine con la forza di quella stessa musica: si tratta di Livio (De Concilio), concierge in un motel che cerca di non far marcire i sogni chiusi nel suo cassetto. In un microcosmo provinciale e vagamente surreale, popolato di edifici metafisici, motel a ore e luci al neon, due opposti si incontrano e, come spesso succede, finiscono per attrarsi.
Amusia è un’opera prima complessa, ambiziosa, raffinata ed elegante che ben rispecchia la personalità eclettica del suo regista; dietro ogni scelta c’è una determinata volontà di rappresentare un microcosmo surreale e onirico difficile da ricondurre entro determinati confini, inafferrabile e mutevole esattamente come l’arte del sogno insegna; un mondo che può anche assumere contorni perturbanti, trasformando la realtà stessa in una gabbia claustrofobica dalla quale scappare diventa difficile, ma non impossibile, trattandosi dell’unica chance rimasta per preservare i propri sogni e le speranze riposte nelle possibilità future. Livia e Lucio sono due solitudini che si incontrano, parafrasando i versi di una nota poesia di Rainer Maria Rilke; lo stesso accade anche ai genitori di Livia (Ferdinando e Domitille), ma al contrario della coppia più giovane sembrano ormai condannati a convivere con l’incomunicabilità, affetti da questa “patologia” che impedisce loro di lasciarsi alle spalle solipsismi vari e piccoli atti d’egoismo.
Un’opera che somiglia ad un lungo sogno lucido
Livia e Lucio, au contraire, possono ancora salvarsi, rompendo lo schema dei luoghi fisici che li ingabbiano in modo claustrofobico fino a conquistare spazi aperti ampi e immersi nella natura, orizzonti lontani che permettono di evolversi, di crescere, di immaginare un futuro nel quale non è necessario parlare, pur essendo importante un altro aspetto: l’ascolto, sia di se stessi, delle proprie esigenze, che del mondo esterno nel quale siamo immersi. Amusia è un film costruito sui contrasti, tra “fuori” e “dentro”, sospeso tra la claustrofobia, ad esempio, della vecchia casa in cui vive Livia (retaggio di un mondo borghese, vincolato spesso a rituali sociali secolari), i non-luoghi popolati dagli strani personaggi della provincia dove vive Lucio (la sala da biliardo; il vecchio ristorante, ma anche il motel a ore con luci al neon e l’edificio nel quale vive il ragazzo) e l’esterno, i totali aperti nei quali perdersi soprattutto nei silenzi della natura che non sono mai asettici, ma popolati dal caos armonioso dei rumori dello spazio circostante.
E Amusia, proprio perché incentrato sul ruolo preponderante del suono, non può che avere un’attenzione speciale e mirata all’uso della musica e del tappeto sonoro che sostiene la struttura drammaturgica, trasformando i rumori nel riflesso dell’emotività di Livia: tormentata, travagliata, ferita, l’interiorità della ragazza agisce sulla percezione esterna plasmandola fino a determinare, ancora una volta, l’intero punto di vista attraverso il quale è filtrato l’intero film. Un’opera che, grazie ai toni onirici, finisce per somigliare ad un lungo sogno lucido che sfrutta proprio le logiche freudiane, tra architetture razionaliste e metafisiche (realmente esistenti, come il famoso Cimitero di San Cataldo già immortalato dal fotografo Luigi Ghirri) e dettagli sorprendenti che proiettano la realtà fuori da se stessa, nell’ennesimo non-luogo che, esattamente come una “Coney Island della mente” uscita dalla penna di Ferlinghetti, vede protagonisti di un viaggio atipico due giovani in cerca della speranza di un futuro diverso.
Ma il viaggio che compiono, accade davvero? Oppure anche quello è figlio del sonno (della ragione), della percezione soggettiva dei suoni e del mondo? Amusia non cerca di dare risposte, condizionando il senso e la percezione dello spettatore; piuttosto, invita a perdersi, a godersi appunto il viaggio, permettendo alle sensazioni di prendere il controllo della visione, accendendo il piacere retinico che calamita l’attenzione di chi guarda tra suoni, colori e luci pronte a rapire il pubblico. La finalità è quella di trascinare nel cuore di un viaggio metafisico che sfrutta una patologia neurologica esistente (e sulla quale accende anche i riflettori) trasformandola in una metafora più complessa, portatrice sana del grande dramma moderno dell’incomunicabilità e dell’incapacità di approfondire un dialogo non solo verso gli altri ma indirizzato, soprattutto, verso se stessi e il proprio universo interiore.
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