Era il 1992 quando Aladdin sbarcava nelle sale di tutto il mondo, dando inizio – insieme a pellicole di poco precedenti come La Sirenetta e La Bella e la Bestia – a un periodo di rinascita per la Disney, a seguito di un forte disinteresse di pubblico che nel corso degli anni ’80 sembrava aver condannato l’azienda di Topolino a un forte crisi creativa. Trentasei anni dopo, Aladdin sembra finalmente pronto a ritrovare nuova vita, non più come prodotto d’animazione ma come blockbuster live action, sull’onda di quei remake che da qualche anno sono molto diffusi in casa Disney.
Certo, le premesse non sono le migliori. Se già il trailer ufficiale offre un ritratto esteticamente eccessivo del ladro dal cuore d’oro, anche le precedenti trasposizioni tratte dai grandi classici dell’infanzia non hanno certo convinto totalmente: mentre un film come Maleficent ha deluso la critica italiana e americana tanto per la storia raccontata quanto per lo stile da molti considerato creepy, La Bella e la Bestia e Cenerentola sembrano aver maggiormente convinto, non distinguendosi tuttavia per inventiva rispetto alle pellicole originali dalle quali sono tratti.
Malgrado qualche timore di fondo, l’adattamento firmato Guy Ritchie di Aladdin si pone in bilico sulla sottile linea di confine che divide un buon prodotto dall’eco bollywoodiano da una pellicola estremamente kitch. Oscillando costantemente tra queste due realtà, il nuovo live action Disney ha quindi la sorprendente capacità di mantenere il delicato equilibrio, risultando paradossalmente riuscito ma anche puntellato da momenti imbarazzanti.
In questo senso, si susseguono sequenze riuscite, spesso ricalcate parimenti da quelle originali, e altre estremamente opinabili, che tentano di aggiornare una storia pensata quasi quarant’anni fa alla luce del mondo contemporaneo. Nel primo caso, ottimi sono soprattutto i numeri musicali – come quelli de “Le notti d’oriente”, “Un amico in me”, “Il principe Alì”, il celeberrimo “Il mondo è mio” – o anche la spassosissima sequenza dei titoli di coda che, pur essendo stilisticamente eccedenti, si allineano a un immaginario bollywoodiano, filtrato ovviamente dallo sguardo di Hollywood.
Nel secondo caso, opinabili sono invece alcuni cambiamenti, tra cui la cornice narrativa (poi inspiegabilmente abbandonata) e soprattutto le modalità di ripensamento della figura della principessa Jasmine. Nonostante sia encomiabile cercare di rendere la protagonista più a tutto tondo, l’istanza femminista di cui vuole farsi portatrice è sviluppata frettolosamente e superficialmente, risultando ridotta a semplici parole al vento imboccategli in modo quasi posticcio e riassunta in una terribile canzone – con annessa sequenza in versione videoclip – dal titolo “Speechless”.
Tralasciando le questioni sull’adattamento e focalizzandosi su quelle più tecniche, la regia di Guy Ritchie è genuinamente piegata alle logiche del puro intrattenimento, risultando nel contempo coesa e funzionale. Le scenografie e i costumi, pur apparendo in certi casi artificiosi, si allineando analogamente agli scopi del prodotto, permettendo di mettere in scena un Agrabah favolistica e cartoonesca. Da un punto di vista attoriale, Will Smith è sicuramente il vero mattatore della pellicola, ma Mena Massoud e Naomi Scott – rispettivamente Aladdin e Jasmine – dimostrano comunque una buona chimica.