Prendete una storia tipicamente americana di caduta, rinascita, sofferta ascesa e redenzione; una vicenda “Born in the U.S.A” che sembra nata per lasciare un segno nella Storia (con la S maiuscola), inscrivendo la parola vittoria nel corso degli eventi. Ma, proprio come l’omonima canzone di Bruce Springsteen, le parole – e le situazioni – raccontano una differente versione di questa stessa storia, lontana dagli archetipi a stelle e strisce più convenzionali e più vicina ad una matura consapevolezza autoriale, che permette di rimaneggiare la realtà attraverso l’occhio della macchina da presa.
Ed è proprio a partire da queste premesse che Ben Affleck torna alla regia di un film, ripercorrendo i fasti (da Premio Oscar) di Argo e allontanandosi dai risultati più deludenti de La legge della notte: AIR – La storia del grande salto è il film che lo ha convinto a firmare la sua rentrée, affidandosi ad una sceneggiatura salda e incalzante firmata da Alex Convery e ad un consolidato cast di fuori classe: il sodale Matt Damon (insieme ad Affleck dai tempi di Will Hunting), Chris Tucker, Jason Bateman, Marlon Wayans, Chris Messina, il premio Oscar Viola Davis e lo stesso Affleck.
Pronto ad approdare nei cinema dal 6 aprile, AIR – La storia del grande salto si sofferma sul personaggio interpretato da Damon, ovvero l’anticonformista manager della Nike Sonny Vaccaro, raccontando l’incredibile e rivoluzionaria partnership tra un giovane Michael Jordan e la nascente divisione dedicata al basket della Nike, capace di rivoluzionare il mondo dello sport, quanto la cultura contemporanea, con il lancio del marchio ‘Air Jordan’. La squadra non convenzionale messa su da Vaccaro, con in gioco il proprio futuro, compie una scommessa decisiva che potrebbe rilanciare (e salvare) il brand Nike quanto sancire la definitiva morte delle loro carriere; dal lato della famiglia Jordan, invece, la visione senza compromessi di una madre che conosce il valore dell’immenso talento di suo figlio e il ‘fenomeno’ del basket, diventato poi il più grande di tutti i tempi, si rivela l’elemento significativo per portare avanti questa complessa e, a primo impatto, impossibile trattativa che ha segnato l’immaginario collettivo.
La tradizione del grande cinema a stelle e strisce
Sulla carta, la vicenda raccontata sembra quanto di più lontano possa esistere rispetto alla nostra sensibilità e cultura europee: siamo, infatti, di fronte ad una tipica storia legata a doppio filo con il background dello spazio fisico che l’ha vista sbocciare, tra riferimenti rutilanti alla pop culture, ai cardini estetici della società americana, strizzando di continuo l’occhio ai miti incontrastati di una nazione e di un’epoca, ovvero quegli anni ‘80 “di plastica” dominati da una cultura estetizzante. Ma – e qui c’è il vero colpo di scena – dietro la patina sfolgorante pulsa un cuore ben diverso.
AIR è infatti un film maturo, che guarda con consapevolezza ai miti e all’identità americana senza cadere nei facili tranelli dell’auto-celebrazione di una determinata way of life stilizzata. Complice il cast dal profilo altissimo, la storia dietro la nascita delle Air Jordan si configura come una piccola epopea nordamericana vissuta all’ombra dei luoghi e dei simboli; la perfetta “confezione” estetizzante anni ‘80 serve a far immergere lo spettatore nell’atmosfera giusta, sbloccando – in alcuni casi – ricordi lontani nello spazio e nel tempo, mentre la musica incalzante (e rigorosamente del periodo) consente di scivolare nell’essenza stessa della vicenda e nelle inquadrature specifiche attraverso le quali Affleck sceglie, scientemente, di narrarla per creare infine un epico affresco corale.
Perché AIR è anche il racconto della genesi del mito, che mostra la nascita di Michael Jordan prima del successo clamoroso e della trasformazione in icona globale, un Jordan giovanissimo che non viene mai mostrato, inafferrabile esattamente come la percezione mutevole che ognuno di noi ha del campione; ma il film diretto da Ben Affleck è, in primis, un’epopea di everymen alle prese con la Storia, di uomini qualunque che lottano per piazzare la scommessa definitiva, provando il brivido – e l’incertezza – dell’azzardo che potrebbe premiarli ma anche compromettere per sempre le loro esistenze.
AIR non è, quindi, tanto il racconto di un mito della pop culture statunitense; piuttosto rappresenta la tradizione del grande cinema a stelle e strisce nel pieno della propria maturità, consapevole dei suoi linguaggi e dei suoi stessi limiti, nei quali non incappa mai riuscendo, infine, nella titanica impresa di prendersi sul serio “il giusto”, né poco né troppo. Perché nel film c’è tutto lo spazio necessario per i grandi monologhi a effetto, per le frasi emozionali e per quel gusto incalzante che ha reso grandi titoli come Tutti gli uomini del presidente o La grande scommessa, in quanto racconti (di “celluloide”) della nostra realtà.
Ma in AIR – La storia del grande salto ogni volta che i toni diventano troppo magniloquenti, correndo il rischio di trasformare il film in un biopic agiografico, ecco che interviene l’umorismo, il contrappunto “comico” pronto a ricondurre l’intera operazione nei ranghi della straordinaria normalità di un evento che, nella totale inconsapevolezza, cambiò la storia dello sport e della cultura moderna per sempre.