Un padre e una figlia; gesti e dettagli immortalati nell’istante fugace di un frammento. E occhi che scrutano nell’oscurità, spiando silenzi, svelando fragilità nascoste perfino a se stessi, in una continua ricerca del proprio io smarrito. Aftersun, titolo dell’opera prima di Charlotte Wells presentata in anteprima italiana ad Alice nella Città (la sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma) e in arrivo prossimamente su MUBI, si avvale della forza seducente dei suoi due protagonisti – e fuoriclasse – Paul Mescal (Normal People) e Frankie Corio (al suo debutto) per raccontare una storia archetipica e universale, che ruota intorno ai legami familiari e ai segreti che, fin troppo spesso, dilaniano le famiglie condizionando le esistenze di ogni singolo membro, al di là dello spazio e del tempo.
Sophie (Corio), una ragazzina di undici anni, e suo padre trentenne Calum (Mescal) decidono di trascorrere le vacanze in una località balneare in Turchia, dove passano le giornate in modo spensierato, godendosi la compagnia l’uno dell’altra. I due vanno molto d’accordo e la loro sintonia li rende molto complici e affini. Ma mentre Sophie cresce entrando nell’adolescenza, Calum cerca di nasconderle la sua lotta perpetua contro il peso della vita al di fuori della paternità, che lo rende una persona migliore e lo allontana dai turbamenti che lo dilaniano nel profondo.
Aftersun: letteralmente tradotto, doposole. Ma, su un piano metaforico, potrebbe anche rappresentare “dopo il sole”, oltre quest’ultimo, superato il confine sottile del tramonto, prima che la luce scompaia per abbracciare la notte silenziosa ed enigmatica, lontana dal chiarore e nella quale la verità può perdersi fino ad affogare. Il doposole del titolo è quello che padre e figlia si passano reciprocamente sul viso, un gesto tenero e rituale, un’abitudine che racchiude il loro microcosmo che è destinato a scomparire, al crepuscolo di quella (breve) estate calda spesa in Turchia, in un facoltoso resort.
Padre e figlia, Calum e Sophie, cercano di tenere insieme i punti di un rapporto che rischia di sfilacciarsi, complice una madre pronta ad una nuova vita e l’inizio della scuola. E Calum, imperfetto e inadeguato nei panni di giovanissimo padre trentenne (di un’undicenne) e fratello maggiore putativo, non sa come approcciarsi a quell’ennesimo radicale cambiamento, fragile e delicato.
Lo sguardo è la chiave di lettura del racconto
Riprendendo una narrazione ideale inaugurata da Uberto Pasolini con il suo Nowhere Special, si torna qui ad indagare i misteri di una mascolinità moderna, complessa e decostruita, che svela tutte le criticità (e gli errori) di un’educazione – e di una impianto sociale – di stampo patriarcale: Calum è confuso, combattuto, figlio di una generazione fluida che vorrebbe semplicemente trovare se stessa nei posti più impensati, lontana dalle convenzioni sociali e dalle regole non scritte di un mondo antico. È determinato a custodire il rapporto speciale che ha con sua figlia, trattenendolo nero su bianco grazie all’immagine analogica, alle riprese di una piccola videocamera anni ’90 (che fanno da sfondo alla storia) che creano un ponte con il futuro, con una Sophie ormai adulta che contempla le riprese di tempi più felici per riallacciare i fili del tempo perduto.
In Aftersun il ruolo dello sguardo assurge a chiave di lettura suprema del racconto, riscrivendo una grammatica dell’immagine nella quale si avverte il peso della focalizzazione del soggetto (che osserva), voyeur privilegiato che finisce per determinare – anche per lo spettatore – l’oggetto stesso dell’immagine filmica. Ma è fuori scena, nei silenzi, al margine del buio che non è inquadrato, che si consuma il dramma umano, che si insidiano le idiosincrasie prima che esplodano palesemente perfino davanti allo spettatore: “I bambini ci guardano”, parafrasando De Sica, ed è la testimonianza di Sophie che fornisce allo spettatore le informazioni utili per conoscere la storia di Calum.
E Aftersun è, in sintesi, soprattutto una storia di mancanze da colmare e spettri da evocare: perché “ogni storia d’amore è una storia di fantasmi” e Sophie cerca di esorcizzare le sue ferite tragiche riportando in vita, attraverso la persistenza della memoria, la presenza/assenza di un padre amato ma mai conosciuto fino in fondo, portatore sano di segreti che risuonano ancora fino ad oggi, le cui conseguenze aleggiano ancora sui silenzi e le idiosincrasie del presente.