Come si riconosce una brava persona? Si tratta, evidentemente, di una domanda che assilla Zach Braff e che il regista rilancia allo spettatore nella sua quarta prova dietro la macchina da presa. A Good Person, disponibile dal 30 maggio su Sky e NOW, si presenta come un dramma convenzionale sul senso di colpa e sull’elaborazione del lutto. Niente di memorabile, insomma, se non fosse per gli intenti quasi programmatici racchiusi nel titolo stesso del film. La prevedibilità degli sviluppi narrativi viene infatti compensata dall’urgenza che deve aver guidato Braff nella stesura della sceneggiatura. Al netto delle numerose ingenuità di cui è disseminato e che potrebbero penalizzarlo agli occhi del critico più puntiglioso, A Good Person è un film fondamentalmente onesto e in grado di generare nello spettatore un coinvolgimento autentico.
Zach Braff rinuncia ai classici cliché strappalacrime e sceglie coraggiosamente di affidare la quasi totale credibilità del film ai due personaggi principali. A distanza di un anno dall’incidente stradale in cui hanno perso la vita i due cognati, la vita di Allison (Florence Pugh) è in frantumi. Divorata dal senso di colpa per aver causato l’incidente di cui è l’unica sopravvissuta, senza più fidanzato né lavoro, si affida alle pillole di Oxycontin. Intrappolata in questa spirale di autodistruzione, si reca quasi per caso ad un incontro di recupero per tossicodipendenti. Qui incontra Daniel (Morgan Freeman), alcolista ed ex suocero di Allison. I due, colpiti dal medesimo lutto, instaurano un improbabile rapporto di amicizia e di sostegno reciproco.
Più volte si ha la sensazione che Morgan Freeman e Florence Pugh, entrambi in forma smagliante e perfettamente calati nei rispettivi ruoli, sostengano da soli l’intero film. La regia di Zach Braff è, in molti passaggi, impercettibile e quasi “televisiva” nell’accezione più negativa di questo termine. Che l’ex J.D. di Scrubs abbia firmato alcuni episodi di recenti serie tv di successo ha probabilmente avuto delle ripercussioni su A Good Person: la modalità di racconto cara all’autore sin dai tempi de La mia vita a Garden State, incentrata sulla descrizione dei turbamenti interiori dei personaggi, persiste sì, ma in maniera quasi svogliata, restituendo la fuorviante sensazione che ci troviamo di fronte all’ennesimo filmetto senza molto da dire.
Un film onesto, al netto delle numerose ingenuità
Molti potrebbero puntare il dito sulla raffigurazione all’acqua di rose della tossicodipendenza e delle varie fasi dell’elaborazione del lutto e della rabbia. I personaggi passano, specialmente nella prima parte del film, da uno stato d’animo all’altro con estrema facilità e si adeguano alle circostanze in maniera strana, sbrigativa, non realistica. Chi ha vissuto esperienze anche lontanamente analoghe a queste storcerà il naso: la vita vera non è così semplice e, ahinoi, tanto la disintossicazione dalle droghe quanto il perdono o l’assunzione delle proprie responsabilità possono richiedere un tempo enormemente più lungo di quello che viene rappresentato in scena.
Eppure non tutto, in A Good Person, è da buttare: laddove i conflitti narrativi raggiungono il loro apice, i nodi vengono al pettine e ci si prepara ad uno scioglimento finale, il film cambia faccia e mostra i suoi pregi, inducendoci persino a rivalutare retroattivamente ciò a cui abbiamo assistito fino a quel momento. Zach Braff dimostra, cioè, di avere la sensibilità giusta per tirare fuori il meglio dagli attori, riuscendo a giochi quasi fatti nell’inaspettata impresa di trasformare i suoi personaggi in figure universali, che trascendono la vicenda specifica e che generano, inevitabilmente, un tuffo al cuore allo spettatore. A Good Person ci scoraggia dalla discutibile impresa di tentare di tracciare a tutti i costi un confine netto tra persone buone e persone cattive. Del resto, trovare qualcosa di noi in queste figure goffe e piene di difetti, ma comunque capaci di grandi dimostrazioni di amore e compassione, non è poi così complicato.
Il rammarico per un’opera riuscita a metà viene in parte mitigato dalla scena di apertura del film, in cui la voce narrante di Daniel cita un saggio sull’arte del modellismo ferroviario, che recita così: “Il collezionista gioca a fare l’onnipotente creatore […] i vicini sono sempre gentili, gli innamorati finiscono sempre con lo stare insieme e i treni vi portano sempre in quei luoghi lontani che vi eravate ripromessi di visitare. Nella vita, naturalmente, niente è così preciso e ordinato”. Braff si cala nei panni del collezionista e assembla, con il trasporto che soltanto un creatore di mondi in scala può provare, una storia per certi versi inverosimile, affatto precisa e ordinata, ma non per questo meno toccante e appassionante.