Misteriose valigie dal prezioso contenuto; personaggi ambigui, identità nascoste, pistole fumanti, bulli e pupe. Il pulp è tornato? Sembrerebbe di sì dopo aver visto 7 Sconosciuti a El Royale, il secondo lungometraggio firmato da Drew Goddard (già autore di serial cult come Buffy e Lost) che arriva a ben sei anni di distanza da quel piccolo gioiello di genere che era Quella Casa Nel Bosco.
E proprio il genere è il leitmotiv della carriera di Goddard nonché la cifra stilistica intrinseca di 7 Sconosciuti a El Royale, atipico noir “pasticciato” e strutturato che gioca con i generi e con i loro fondamentali capisaldi. Il film vanta un cast stellare: Chris Hemsworth, Jon Hamm, Jeff Bridges, Dakota Johnson, Cynthia Erivo, Nick Offerman e la giovanissima Cailee Spaeny, tutti coinvolti negli oscuri misteri che affondano nel lato più torbido dei loro personaggi.
Il film ha aperto la 13esima edizione della Festa del Cinema di Roma, trascinando lo spettatore mattiniero nelle contraddizioni dell’America del 1969, alle soglie dell’elezione di Richard Nixon, sullo sfondo di un conflitto sanguinoso come il Vietnam e con una serie di cruenti omicidi – apparentemente senza ragione – che hanno scosso le coscienze della buona borghesia californiana.
In questo contesto sette estranei, ognuno con un passato da nascondere e un segreto da proteggere, si incontrano all’El Royale sul lago Tahoe, un misterioso e fatiscente hotel al confine tra California e Nevada. La notte del loro incontro sarà un momento decisivo: tutti avranno un’ultima, fatidica possibilità di redenzione.
7 Sconosciuti a El Royale (qui il trailer italiano ufficiale) è un film essenzialmente pulp: come indica l’etimologia stessa del termine, è un curioso guazzabuglio, che gioca con i generi, altera le coordinate spazio-temporali decostruendole e finendo per orchestrare una sinfonia della duplicità, dove niente è come sembra e non esiste un’unica versione della verità.
Ogni personaggio si è macchiato di qualche peccato ed è in cerca di un’occasione per redimersi; ma, allo stesso tempo, nasconde una verità ben diversa da quella che appare agli occhi dello spettatore. Nessuno è davvero chi dice di essere, e sullo schermo osserviamo l’incessante dipanarsi degli eventi, immersi in un’atmosfera pop, dai colori e dalle scenografie tipicamente anni ’60, dove ogni dettaglio è funzionale alla narrazione e colma un horror vacui della scena.
Per 7 Sconosciuti a El Royale possiamo parlare di nuovo di pellicola, perché Goddard ha scelto volontariamente di girare in analogico bandendo il digitale: una scelta rischiosa ma esteticamente vincente, che permette al regista di realizzare più un’opera crossmediale che un semplice film, finendo per “drammatizzare una graphic novel” piuttosto che limitarsi a riprendere delle immagini in movimento.
Ma nonostante i guizzi di regia, l’estetica piena e definita dal sapore vintage, l’ottimo cast che si abbandona a una prova teatrale nell’integrità spazio-temporale nella quale viene confinata dal regista, il film presenta delle debolezze che ne rischiano di minare l’effettiva riuscita.
La struttura del noir – la divisione in capitali, l’albergo decadente, i personaggi eccentrici, la criminalità, il periodo storico e la colonna sonora – ricordano da vicino moduli e strutture esaltate al cinema da Quentin Tarantino, che hanno contribuito a fondare il mito del pulp a partire dagli anni ’90. Ma un immaginario simile, senza un guizzo di genio collaterale, rischia di sembrare un mero esercizio di stile soprattutto se “spalmato” nell’arco di 141 minuti.
La sensazione che si ha, vedendo 7 Sconosciuti a El Royale, è quella di vedere un prodotto audiovisivo atipico, dalla natura indefinita e multiforme come il concetto stesso di pulp, il cui effetto finale è inficiato da un eccesso di verbosità che attanaglia alcuni dialoghi, qualche lacuna nella sceneggiatura – che, alle prese con sette personaggi e altrettante storie, richiederebbe maggior precisione – e un montaggio che alterna momenti di grande dinamismo a bruschi rallentamenti lungo il percorso.