Non di solo cinema d’autore vive lo spettatore contemporaneo, anzi. Se lo deve essere ripetuto anche Netflix, dato che a distanza di una settimana dall’ottimo Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, ha reso disponibile in streaming uno dei film più attesi della stagione, lo spettacolare (e fracassone) 6 Underground di Michael Bay.
Prima di parlare del film è necessario comunque fare un piccolo preambolo. Fino a qualche anno fa, Michael Bay non solo era un regista bistrattato, ma nessuno si curava molto di lui: né la critica, che lo associava a film tutt’altro che memorabili, tronfi e “pompati”, pieni di effetti speciali ma privi di anima; né il pubblico che accorreva in massa a vedere le sue pellicole (la maggior parte campioni d’incasso), ma il cui nome diceva poco o nulla. Che cosa sia successo negli ultimi 12 anni è difficile dirlo, però è abbastanza evidente che da Transformers (anno 2007), la considerazione nei confronti del regista statunitense è notevolmente aumentata.
E questo non tanto per la qualità intrinseca dei suoi film – alla fine, quelli più iconici rimangono i “vecchi” The Rock (del 1996) e Armageddon – Giudizio Finale (del 1998) -, quanto per l’aver portato ai massimi livelli la spettacolarità cinematografica nell’era contemporanea, giungendo persino a mettere in secondo piano la trama per privilegiare sequenze caleidoscopiche capaci di coinvolgere anche fisicamente lo spettatore… e poi, naturalmente, tante, ma proprio tante esplosioni (un po’ un marchio di fabbrica).
6 Underground è, rispetto alla carriera di Bay, da una parte una summa (allucinata) del suo cinema (inseguimenti, esplosioni, sparatorie, ancora esplosioni, in una parola: azione allo stato puro), dall’altra invece rappresenta un po’ sia un punto di arrivo che un punto di partenza per un genere di cinema capace di coinvolgere sempre più lo spettatore, fino quasi ad anestetizzarlo attraverso la bellezza scoppiettante delle sue immagini (e del montaggio serrato). E questo nonostante il film sia stato distribuito esclusivamente sul web, senza passaggio in sala.
La trama del film è piuttosto esile. Un miliardario (Ryan Reynolds) assiste al bombardamento di un campo profughi ordinato dallo spietato dittatore Rolach Alimov (Lior Raz), leader di una fantomatica nazione a confine tra Russia ed Asia. A seguito del drammatico evento, il miliardario decide di allestire una squadra di vigilanti con l’obiettivo di spodestare il tiranno e insediare a comando della nazione il liberale fratello Murat (Payman Maadi).
La squadra è formata da 6 elementi: oltre al suo fondatore, che si fa chiamare “Uno”, ci sono l’ex spia “Due” (Mélanie Laurent) molto abile con le pistole, il rude tuttofare “Tre” (Manuel Garcia-Rulfo), l’atletico “Quattro” (Ben Hardy) specializzato in acrobazie, il medico “Cinque” (Adria Arjona), e l’ex Marine “Sette” (Corey Hawkins)… sì, c’è anche naturalmente un “Sei” (Dave Franco), ma è meglio guardare il film per scoprire il suo ruolo nella vicenda, fidatevi. Morale della favola: riusciranno i nostri (anti)eroi a pianificare il colpo di stato e far cadere il tiranno?
Scrivere di 6 Underground non è semplice. Se dovessimo considerare tutti gli aspetti che caratterizzano un film (sceneggiatura, regia, interpretazioni, ecc.), allora il giudizio sarebbe impietoso. Non c’è un briciolo di trama e i dialoghi sono piuttosto imbarazzanti (lo script è firmato da Rhett Reese e Paul Wernick), la vicenda è qualcosa che al cinema si è visto già altre centinaia di volte, il cattivo di turno non ha alcun spessore e carisma, e i personaggi principali sono tutto fuorché memorabili. Però, nel pensare e scrivere queste considerazioni sul film, c’è un altro aspetto da tenere di cui tenere conto: vale davvero la pena giudicare un’opera come quella di Bay con i parametri che si usano per tutte le altre pellicole?
6 Underground infatti, più che un film è il manifesto di un modo altro di fare cinema, inteso come intrattenimento allo stato puro. Nel 1895, agli albori del cinematografo, Louis Lumiére sosteneva – o almeno pare sostenere- che il cinema era un’invenzione senza futuro. Il suo giudizio, per quanto lapidario, va letto in relazione a quello che era il cinematografo nei suoi primi anni di vita: una tipologia di spettacolo non dissimile da un fenomeno da baraccone. I primi spettatori che ebbero l’opportunità di vedere un “film” erano attirati esclusivamente dal fatto di vedere immagini animate, indipendentemente da quanto veniva loro mostrato: poteva essere un treno in arrivo a una stazione, oppure l’uscita di alcuni operai da una fabbrica, o magari la veduta di qualche luogo sperduto nel mondo (le piramidi di Giza, un tempio in India).
Ciò che catturava l’interesse era esclusivamente il movimento (delle figure all’interno dell’inquadrature, più che il movimento di macchina) e l’azione (dettata sempre da quel movimento all’interno della singola inquadratura). Effettivamente, visto nell’ottica di spettacolo fine a se stesso, il cinema non poteva aver futuro, e coloro che vennero dopo i Lumiére (da Georges Meliès in Francia a Erwin S. Porter negli Stati Uniti), accentuarono un aspetto su tutti: la narratività. Così, il cinema cominciò non solo a mostrare, ma anche a raccontare storie.
Tutto questo per dire che oggi, a distanza di più di 100 anni dalla sua nascita, è come se Michael Bay con 6 Underground andasse a riesumare un’idea di cinema in quanto puro intrattenimento che va anche al di là della concezione di cinema spettacolare in senso stretto (per dirla alla Scorsese: i film Marvel), perché se non tralascia l’aspetto narrativo comunque mette in secondo piano la narrazione per concentrarsi esclusivamente su tutti quegli elementi filmici capaci di sorprendere lo spettatore, di eccitarlo come un bambino che per la prima volta viene portato dai genitori a vedere uno spettacolo circense, o come lo spettatore vergine della fine dell’800 che si trovava per la prima volta al cospetto delle immagini in movimento.
Ma vi è inoltre anche un altro aspetto da tenere in considerazione. All’inizio di questa recensione si sosteneva come 6 Underground fosse una summa del cinema di Michael Bay. Niente di più esatto (secondo noi), ma c’è anche dell’altro. Cavalcando l’onda impetuosa della sua popolarità, Bay – grazie anche a Netflix – è come se per la prima volta non avesse girato semplicemente un film, ma avesse realizzato (con coscienza) un film “alla Michael Bay”, accentuando tutti quegli aspetti tipici del suo cinema, e utilizzando, nel fare questo, anche molta autoironia.
Per tale motivo più che un film, 6 Underground può essere definito un “sur-film”, ovvero un’opera autoconsapevole, parafrasando il concetto di “sur-western” utilizzato dal critico André Bazin per discorrere del film Il cavaliere della Valle Solitaria. Con questo termine si vuole indicare una tipologia di film capace di riflettere su stesso e sul genere di appartenenza, avendo la capacità a dialogare con tutti i cliché tipici del suo genere. In questo caso inoltre, oltre al genere di riferimento – il cinema d’azione -, la riflessione si allarga anche al cinema di Michael Bay e, in generale, al cinema in quanto forma di spettacolo puro.
Da questo punto di vista, i primi 20 minuti rappresentano l’essenza stessa del film (e, come detto, anche del cinema di Bay). La sequenza realizzata tra Firenze e Siena (la soluzione di continuità tra i due luoghi è tale che le due città creano una sorta di “non luogo” cinematografico che serve esclusivamente da mero sfondo per l’adrenalinica azione che vi si consuma) è contraddistinta da una corsa in automobile per i centri storici delle due città, durante la quale accade letteralmente di tutto. Esplosioni (e che esplosioni!), naturalmente, ma non solo.
Tra auto che vengono catapultate a velocità folle sull’asfalto, motociclisti investiti e sbalzati contro muri, altri mezzi di locomozione e architetture varie che deflagrano, bambini quasi falciati (ma che alla fine si salvano), acrobati (il personaggio di “Tre”) che si gettano nell’azione direttamente dalla cupola del Brunelleschi. La scena è un fuoco d’artificio che fa perdere qualsiasi coordinata e appiglio rispetto a quanto sta accadendo, come se non fosse importante ciò che succede ma il solo accadere, ovvero il susseguirsi dei singoli cataclismi che contraddistinguono l’inseguimento.
Lo spettatore è così catapultato all’interno di un’esperienza filmica che, nonostante la fruizione sul piccolo schermo, è capace di avvolgerlo in un turbinio di sensazioni (non certo di emozioni) che se da un parte permettono di immergere direttamente nella visione, dall’altra tendono a sminuire tutto quanto accade nella successiva ora e mezzo di film, piuttosto noiosa e un po’ monocorde (anche se la sequenza ambienta a Hong Kong rivaleggia con quella di apertura).
Limiti (tanti) a parte, 6 Underground rimane comunque un’esperienza filmica imprescindibile, sopratutto per capire dove le nuove tecnologie – il film si avvale tanto di effetti speciali quanto di soluzioni di riprese molto varie, a cominciare dall’uso di macchine da presa più agili – stanno portando il cinema contemporaneo, incamminato verso un futuro che appare sempre più dicotomico: tra i cultori del cinema in quanto espressione artistica, e quelli che invece vedono nella settima arte solo un mezzo attraverso il quale fare puro spettacolo.
Tutto questo nell’attesa che qualche critico o studioso di cinema sdogani anche a livello critico/accademico il regista che più di altri incarna la quintessenza del cinema spettacolare americano e scriva una fenomenologia del cinema di Michael Bay. Scommettiamo che si tratterebbe di un saggio da maneggiare con cura, perché altamente esplosivo!