lunedì, Ottobre 2, 2023
HomeIntervisteStefano Sollima: "Soldado, il mio provocatorio omaggio alla frontiera"

Stefano Sollima: “Soldado, il mio provocatorio omaggio alla frontiera”

Soldado è pronto ad approdare al cinema: il sequel di Sicario, successo cinematografico firmato dal regista canadese Denis Villeneuve, arriverà nei cinema il prossimo 18 ottobre con la regia dell’italiano Stefano Sollima, alle prese con il suo debutto hollywoodiano (qui la nostra recensione del film).

Con una mega produzione a disposizione e attori del calibro di Josh Brolin e Benicio Del Toro, Sollima è riuscito a irrompere in un immaginario consolidato portando il proprio sguardo, sempre incentrato sull’analisi dei lati oscuri dell’animo umano, perso nei corridoi della criminalità, del potere e della violenza, perfino nel mercato americano, forse alla ricerca di nuovi linguaggi e venti europei.

Stefano Sollima presenta alla stampa Soldado, il suo debutto a stelle e strisce

Per presentare questo crime dalle venature action e neo-western, Stefano Sollima ha scelto la stampa italiana, mettendo subito in luce le contraddizioni, le differenze e le difficoltà incontrate durante la lavorazione sul set di una produzione così grande:

«Ho cambiato tutti i reparti. Dal direttore della fotografia, allo scenografo, passando per il musicista, e questo perché l’idea non era tanto quella di fare un sequel bensì di creare un nuovo capitolo all’interno di una saga, prendendo come punto di riferimento un universo narrativo ben definito e alcuni degli attori, mentre il resto era completamente diverso. Soldado e Sicario non sono legati tra loro, chi vede il secondo capitolo non deve necessariamente fruire del primo ed è perfino labile il confine che identifica la natura stessa “da” sequel, perché appunto non c’è un legame nemmeno temporale tra i due».

E a proposito delle particolarissime location scelte per il film, sospeso tra il confine statunitense e gli spazi ampi quanto desolati del Messico, Sollima ha aggiunto:

«Lavorare in spazi come quelli del deserto influenza, per esempio, l’approccio visivo. Io mi sono sentito subito molto a mio agio con il racconto di Taylor Sheridan, l’ho sentito subito vicinissimo al mio cinema, quindi mi sembrava una transizione da un mondo a un altro, da un mondo europeo a uno hollywoodiano, puramente americano. Un ottimo punto di partenza per attuare una transizione, perché incentrata sugli antieroi, con una struttura corale e poi a ognuno dei personaggi è affidato un sentimento del racconto e addirittura spesso le storie neanche si toccano. L’altra cosa che mi ha colpito in Soldado è che, pur essendo un film spettacolare di grande intrattenimento, ha uno sguardo profondo e attento su quello che è il nostro mondo, che nello specifico lì è il racconto della frontiera, mantenendo dei fortissimi contatti con l’attualità».

Com’è stato il tuo debutto a Hollywood, Stefano… e soprattutto, stai già pensando a un ipotetico terzo capitolo della saga inaugurata con Sicario e proseguita con Soldado?

«Emotivamente passare dall’Italia alla gestione di un progetto hollywoodiano è stato un vero impegno, perché da un certo punto di vista è come ricominciare tutto daccapo: gli step si conquistano passo dopo passo, e questo rende l’esperienza più interessante. Per me si è trattata di una splendida avventura perché non ho perso, per esempio, la specificità – che è qualcosa che si rischia di perdere sempre – e che invece nella transizione da un mondo all’altro è rimasta inalterata.

All’epilogo in realtà non sto pensando, anche perché il film ha già di per sé un finale chiuso – soprattutto sull’arco narrativo di un personaggio – e la versione che vedrete al cinema è la mia Director’s Cut, dove ho tagliato solo dieci minuti di finale, una premessa che ho fatto anche ai produttori durante la prima proiezione. Quando ho mostrato loro il film ero terrorizzato, anche perché avevo fatto quello che per me era un taglio radicale che loro non hanno nemmeno notto e che, in un primo momento, non abbiamo né valutato tantomeno pensato».

Quale approccio hai avuto con la produzione del primo film, che comunque poteva contare sulla presenza di Villeneuve – ricordiamo, regista del sequel Blade Runner 2049 – e su due attori come Brolin e Del Toro, reduci dal grande successo al box-office del precedente capitolo? Che tipo di sfida artistica è stata?

«Con la produzione mi sono mosso come ho sempre fatto nella mia vita, ovvero ignorandoli rispettosamente: perché loro avevano realizzato un film visivamente e strutturalmente diverso come Sicario, che è molto più delicato e ha anche un punto di vista morale, che lo rende proprio per questo motivo meno provocatorio, meno forte e più morbido; un film che anche visivamente è più lento perché costruito in modo diverso. Io al contrario ho cercato di lavorare a modo mio, senza nemmeno vedere Sicario perché non era proprio nell’interesse del progetto cercare di realizzare un sequel a tutti gli effetti, bensì un film completamente diverso.

Un po’, per esempio, come è accaduto nella saga di Alien: però forse lì c’era un maggior legame temporale tra i vari film, pur essendo figli dei diversi punti di vista, che so, di Ridley Scott quanto di James Cameron. La produzione chiama un regista per una specificità utile per rappresentare l’universo del quale si vuole narrare: per il momento a nessun è mai venuto in mente di paragonare i due film, Sicario e Soldado».

A proposito di atteggiamento provocatorio: nel film personaggi e schieramenti sono così opposti e confusi che, alla fine, è difficile capire chi è il nemico di chi.

«Sì, perché per come è strutturato lo spettatore, ad un certo punto, deve perdere completamente la distinzione manichea tra bene e male. I protagonisti vanno in missione per vendicarsi – e per vendicare – una strage ma allo stesso tempo, mentre cercano di combattere il male, finiscono per infliggerlo e tutti i personaggi non sono filtrati da uno sguardo morale. Loro agiscono e si perde, progressivamente, il senso dei personaggi che cambia radicalmente: Benicio Del Toro parte come un killer spietato, un uomo che ha perso quasi la sensibilità, rispetto a ciò che vive perché è animato da un desiderio di vendetta; è letteralmente “annacquato” da ciò che ha vissuto ed è come se avesse perso un senso. Che ritrova salvando la figlia dell’uomo che gli ha tolto tutto – Reyes – finendo per mettersi contro tutti. Si perde all’improvviso qualunque punto di riferimento e non c’è più nessuno sguardo morale che possa aiutare a digerire il processo. Soldado è, proprio per tali motivi, un film provocatorio perché non c’è nessuno a guidarti nella comprensione del processo: è un’esperienza privata, che ti vivi da solo, brutale e totalizzante».

soldado

Hai avuto delle difficoltà nel proporre la tua “specificità”, e soprattutto com’è stato lavorare con attori già affermati, rispetto magari alle tue precedenti esperienze – penso a Gomorra – dove ti sei trovato a lavorare con degli attori emergenti?

«In Europa il regista ha un controllo creativo – anche senza la fase Director’s Cut – che è molto forte, perché il sistema produttivo è molto più semplice: in media c’è un produttore e un distributore e molte meno parti in causa. In America il sistema produttivo è molto più complesso: c’è un produttore che detiene i diritti della proprietà letteraria; poi c’è uno studio che finanzia il film, poi un distributore – che sono gli studios stessi – e ci si ritrova ad interfacciarsi con un executive che lavora per loro; poi, infine, hai un distributore anche estero. Quando inizi a lavorare non sei tu che condividi con qualcun altro una visione; sei tu che la condividi ma con altre otto persone, di cui due ogni tanto cambiano (gli executive). In quel contesto è molto più facile perdersi o comunque perdere il tuo tocco, che è però il motivo per cui ti chiamano.

Loro riconoscono il talento è riescono ad associarlo ai progetti giusti: ma, siccome ci sono tantissime parti in movimento, il motivo stesso per cui ti hanno cercato – ovvero la tua specificità appunto – diventa oggetto del lavoro e dello sguardo degli altri, e ognuno impone la propria visione e ci si ritrova a discutere su come farlo funzionare o meno sotto determinati aspetti (tagli da fare o da non fare, la fruizione e la comprensione del pubblico etc.), in base agli spettatori ma soprattutto in base agli attori sui quali vengono spesso strutturati i film e montati al 99% dei casi. Il ruolo del regista rischia quindi di risultare marginale nel processo creativo, e avevo paura proprio di questo.

Penso, con la produzione, di essere stato molto insistente e, siccome non faccio parte di quel mondo, loro non erano per forza di cose obbligati a finanziarci, e io potevo rimanere quindi irremovibile sulle mie scelte. E poi sono stato molto fortunato ad aver avuto dei produttori illuminati che hanno prodotto e difeso il lavoro dietro Soldado, basandosi anche su dei test di marketing vitali per capire il polso della situazione di un progetto, che ti può essere anche strappato all’improvviso dalle mani, perdendo completamente qualunque tipo d’indipendenza creativa conquistata».

Stefano, sei intervenuto direttamente sulle scelte casting di Soldado?

«Assolutamente sì, sempre in prima persona e con tutti, a parte Brolin e Del Toro che erano già parte del progetto fin dall’inizio. Ad esempio ho chiesto a Matthew Modine, un attore che adoro da sempre, di prendere parte al film in un cameo».     

Ludovica Ottaviani
Ludovica Ottaviani
Imbrattatrice di sudate carte a tempo perso, irrimediabilmente innamorata della settima arte da sempre | Film del cuore: Lo Chiamavano Jeeg Robot | Il più grande regista: Quentin Tarantino | Attore preferito: Gary Oldman | La citazione più bella: "Le parole più belle al mondo non sono Ti Amo, ma È Benigno." (Il Dormiglione)

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

RECENTI

- Advertisment -