Giovedì 18 luglio uscirà in sala il noir Glory Hole: solido, ambizioso esordio che la redazione di Moviestruckers.it saluta con piacevole sorpresa, seguendo d’ora in poi, fiduciosa, i futuri passi del suo autore, Romano Montesarchio, innamorato della Settima Arte fin da bambino, documentarista quasi per vocazione.
L’impossibilità a riconoscere e accogliere oggi la Bellezza, il mistero del Male, il dono dell’Amore per fronteggiare il Fato e l’assurda crudeltà del nostro essere al mondo: queste e altre suggestioni hanno arricchito la conversazione con il regista casertano. Buona lettura!
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Dietro ogni regista si nasconde quasi sempre un bambino che gioca e tale vuole rimanere con l’aiuto della macchina da presa. Prima di addentrarci in Glory Hole sarebbe interessante conoscere meglio questo bambino… Quando hai deciso, Romano, di fare del cinema un elemento essenziale della tua vita? Credi valga ancora la pena esprimersi, accendere discussioni attraverso questa forma d’arte?
«L’ultima domanda è la più stimolante (ride)… ma andiamo per ordine. Come spettatore, il piacere nasce da piccolino. Essendo figlio di genitori giovani e lavoratori, rimanevo spesso a casa con i nonni. Caserta era la mia città. In pieno centro, ricordo, c’era la Sala Corso: mio nonno aveva l’abitudine, al pomeriggio, di portarmici. Vedevamo i film più disparati, western, ecc… I cinema di allora – sono del ’73, ho già una certa età (ride) – appaiono come mondi sempre più lontani: si parlava ad alta voce, si fumava… l’atmosfera era più movimentata rispetto ad oggi. In provincia, soprattutto. Questo, forse, mi abituò all’idea dell’esistenza di una realtà per così dire “parallela”, quella dei film. Idea, poi, che ho coltivato negli anni.
Sono stato un accanito cinefilo per tutta l’adolescenza e il periodo dell’università. Videoteche da esplorare e vhs da collezionare non mancavano, come le visioni notturne: sono “figlio”, se vogliamo, di un programma, “Fuori orario”, che consentì a me e ad altri di scoprire opere pazzesche, di ogni provenienza. A Caserta, poi, gli incontri di cineforum erano vivaci. Cresceva, così, la mia ossessione per le immagini in movimento. Di cinema cominciai, dapprima, a scrivere poi non resistetti più al desiderio di farlo. Mi iscrissi ad una scuola: il docente, un direttore della fotografia, intuì certe mie potenzialità e anche grazie a lui iniziai a lavoricchiare sul set, nelle vesti di assistente operatore, quindi operatore di macchina fino a quando, quasi per caso, insieme al collega e amico Carlo Luglio scelsi di dedicare il mio primo documentario, “Cardilli addolorati”, alla passione di molti napoletani per gli uccellini in gabbia e il loro canto, sorta di lenitivo alle pene della vita. È una passione con un fondamento antropologico molto forte: esplorandola, come in un viaggio, sfiorammo un’umanità crudele, dai bracconieri ai venditori illegali di cardellini fino ai regolari frequentatori di fiere, celante sotto questo gesto una forma d’amore estrema, che ci colpì. Sembrò un primo approccio riuscito.
Seguì un altro documentario su un luogo della mia terra, “La Domitiana”, fascia costiera della provincia di Caserta, che dovrebbe vivere di tutt’altro (es. archeologia, turismo) e che invece, disgraziatamente, racchiude quasi tutti i mali del Sud d’Italia: abusivismo, droga, tratta degli esseri umani e numerose altre piaghe. Pure questo secondo lavoro, nonostante il budget risicato, ebbe risonanza: decisivo fu l’aver ripreso la rivolta della locale comunità ghanese in seguito alla strage di Castel Volturno. L’allora capostruttura di RAI3 mi contattò chiedendo di poter vedere il girato: “La Domitiana” venne trasmesso in prima serata con buoni ascolti. Probabilmente fu questa esperienza, l’essersi trovati nel posto giusto al momento giusto, a chiarirmi quale dovesse essere la mia strada. Ho proseguito negli anni, per il piccolo e il grande schermo, sulla via documentaristica che è un po’ la mia vocazione, mantenendo però intatta la curiosità per ogni genere di film, specie il noir e il thriller psicologico, la voglia di approdare ad altri lidi, la speranza di proporre una storia diversa, non vincolata alla realtà. Pensai, dunque, che sarebbe stato interessante penetrare la vita, la coscienza di un fuggiasco in un bunker.
La zona in provincia di Caserta, in particolare Casal di Principe, brulica di questi appartamenti sotterranei, nascosti, con accessi molto complicati. Va da sé che realizzare un documentario sarebbe stato praticamente impossibile: la finzione era la chiave giusta. Feci una lunga ricerca, mettendo insieme un vasto materiale sulle modalità di costruzione dei bunker e, ascoltando varie dichiarazioni di pentiti, le abitudini al loro interno. Cosa si agita nella mente di un uomo solo, sepolto, per il quale l’unico rapporto col mondo sono le videocamere di sorveglianza? “Ricordi e sogni” rispondeva la maggioranza degli intervistati. Lo spunto nasce da qui ma ciò che si vede in Glory Hole è, come prima accennai, soprattutto il retaggio di tante, tante visioni di genere, cariche di suspense».
Da alcuni anni ricopri il ruolo di docente di cinematografia all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Quali sono le differenze, se ve ne sono, tra gli allievi di oggi (maestranze di domani) e quelli della tua generazione? Quanto è difficile poi, come documentarista, formare gli occhi, l’idea di cinema dei giovani in modo che siano sorretti da un qualche rigore e tensione morale?
«Quasi tutti, intanto, vorrebbero fare lo stesso mestiere: il regista. È come se per loro non esistessero altre forme di partecipazione ad un film (ride). Il primo grande scoglio è quello di fargli capire che è un’arte corale dove ognuno mette la propria predisposizione, sensibilità e competenza al servizio di un progetto ancor prima delle volontà del regista. Quando studiavo cinema c’era, inoltre, una grande fatica, a suo modo utilissima, nel cercare le pellicole da vedere. Si doveva frequentare le cineteche, consultare gli archivi per scovare, quando andava bene, le opere dal passato.
Grazie alle piattaforme, oggi, le possibilità di reperire tali opere sono aumentate incredibilmente: questo ha fatto sì, ed è un paradosso, che subentrasse una grossa pigrizia. Tutto viene proposto, insomma, tutto o quasi è disponibile al nuovo pubblico che tuttavia non si impegna a seguire delle tracce, delle linee che senta davvero sue: ciò ha reso gli allievi fin troppo suscettibili alle mode e lo sguardo ne esce uniformato. Tutti vedono le stesse cose, difficilmente c’è qualcuno che si discosta e chi lo fa nutriva un interesse speciale dall’inizio, era cioè motivato a intraprendere un percorso di ricerca e scoperta personali nella storia della cinematografia. Oggi si ha una grande facilità di accesso agli strumenti: basterebbe un computer portatile qualunque, una fotocamera o uno smartphone ed ecco pronta una storia per un cortometraggio, un piccolo film indipendente.
All’epoca, no. Occorreva procacciarsi dei mezzi, procurarsi una videocamera, recarsi in moviola per montare. Trovo questa comodità un po’ dispersiva per un giovane che comincia, come se nell’innamoramento, concedimi il paragone, saltasse tutta la fase del corteggiamento, come se per lui fosse un’eterna palestra dove si fa tanto ma giusto perché si può fare, senza mai concentrarsi sulla storia, lasciandola crescere dentro di sé, nutrendosi dell’osservazione della realtà; ciò esige tempi lunghi proprio perché è necessario affinare la sensibilità sul tema, capire cosa si vuole raccontare dal profondo senza che lo debba subito, necessariamente filmare. Riprendendo la domanda iniziale, se valga o meno la pena esprimersi ancora per mezzo del cinema, ritengo di sì. Bisogna farlo!
C’è ancora un pubblico che vuole un determinato tipo di film, italiano o estero non importa, che non sia il frutto di un algoritmo o una predisposizione commerciale a monte bensì dei pensieri e delle sensibilità di singole persone che portano avanti progetti indipendenti, faticando molto a emergere e che, tuttavia, rappresenterebbero una valida resistenza alla conformità. I ragazzi, che dovrebbero essere i più audaci nel portare al cinema storie “che osano”, si presentano già come il prodotto inconsapevole di una formazione, di un modo di vedere: millantano di essere dei grandi appassionati quando si limitano alle opere degli ultimi anni (Guadagnino, Sorrentino e Garrone riguardo al nostro cinema) e non hanno mai visto Vertov, Hitchcock, Cassavetes, i capolavori del Neorealismo, i primi film di Coppola e Scorsese… fondamenta labili, purtroppo».
Venendo a Glory Hole, che ho molto apprezzato, nel corso della proiezione tornano alla mente due modelli: L’uomo senza sonno di Brad Anderson e Haze di Tsukamoto Shin’ya. Il canovaccio criminoso assume fin dal prologo una dimensione metaforica, portando a riflettere sul trauma della nascita, l’accettazione della follia del mondo, il suo dolore, le voci paterne, falsamente amiche che riempiono di promesse, fingono di guidare ma altro non fanno che scaraventarci da una “fossa” all’altra, da una “prigione” all’altra… Tale dimensione fu da subito voluta oppure è emersa nel corso della scrittura?
«Era in parte già chiara dall’inizio. La sequenza dove Silvestro (Francesco Di Leva; N.d.R.) esce dalla colonna effimera, attaccato ad un respiratore artificiale, fu predisposta, appunto, come se fosse un parto, un ingresso nel mondo. Volevo intercettare il cammino del protagonista a partire da un momento preciso ossia quando entra nella sua nuova “vita”, da lì, stilizzandolo, si sarebbe dipanato, metaforicamente, il cammino dell’esistenza di ognuno, la vita come la morte. Man mano che scrivevamo la sceneggiatura, va detto, insieme a Pistone e Russo ci è piaciuto molto “giocare”, portare all’estremo l’iconografia del Buco, disseminando la vicenda di simboli, piccoli segni… nondimeno è l’impossibilità ad accogliere in sé la Bellezza il tema principale del film.
Se davvero un criminale trovasse il coraggio di far fronte alla Bellezza, accettarla qualunque essa sia, nelle forme dell’Amore piuttosto che dell’Arte, della Cultura non accetterebbe più la vita di sempre, non si macchierebbe più di simili reati. Il messaggio di fondo doveva essere questo, evitando ogni digressione sociologica o criminologica: mi interessava unicamente l’interiorità del personaggio, escluso, inadeguato, perso in un dedalo dove non è in grado di muoversi».
La riflessione sul Male è centrale, perfino insistita in Glory Hole. «Come te lo spieghi il Male?» chiede don Peppino (Mario Pirrello) a Silvestro, sulla falsariga di Ivan Karamazov. Pongo la stessa domanda: alla luce della tua esperienza, delle ricerche nell’universo criminale pensi che il Delitto sia la conseguenza di errori, scelte prettamente individuali, “umane” o, viceversa, dell’azione di forze “non umane”, magari diaboliche a causa delle quali tutto sembra essere destinato a ripetersi ciclicamente?
«Propendo per la seconda ipotesi. Quella del Male è un’attrazione, una tensione in qualche modo innata: alcuni individui, credo, sono naturalmente predisposti a far emergere il Male, altri meno ma soprattutto sono le condizioni sociali che fin da subito aiutano a sviluppare, ad affinare tutta una serie di logiche, di tratti interiori a scapito di altri… “Cummanà è meglio d’o fottere”, si dice dalle mie parti. Molte persone appartenenti a diversi livelli al mondo della malavita hanno questo atteggiamento morboso nel comandare. Sono abituati, è quasi una “maledizione ereditaria”. Si tratta, una volta di più, di segni antropologici: per secoli il Sud d’Italia – Sicilia, Calabria, Puglia come anche la mia Campania – è stato sotto colonizzazione di altre popolazioni, altre culture più potenti e quindi, ad un certo punto, quando si è deciso di liberarsi lo si è fatto da un lato con brutalità, dall’altro in modo “occulto”. Mafia e camorra sono, in fondo, degli invisibili anti-stati che comandano in parallelo allo Stato istituzionale, con notevole capillarità, delineando un tessuto sociale coeso, forse non più strappabile. Esso è parte della coscienza delle persone, a prescindere.
La zona dove è ambientato il film, ad esempio, Casal di Principe, è un caso particolare, assai interessante sotto il profilo storico-sociologico: pressoché disabitata prima del Fascismo, per le bonifiche (che già avvennero, comunque, in età romana) furono messi in campo dei condannati ai lavori forzati – uomini i cui geni erano, se vogliamo, votati al Male – che finirono per stabilirsi lì, creando delle comunità; comunità quasi senza radici che posero questa peculiare condizione a fondamento del proprio stile e filosofia di vita: “In questa terra siamo stati messi, noi l’abbiamo bonificata, qui noi comandiamo”. Certamente dalla letteratura ho preso in prestito alcune suggestioni: “Memorie dal sottosuolo” di Dostoevskij, “La tana” di Kafka, ovunque trovassi abissali interrogativi sul perché un uomo decida di barricarsi dentro sé stesso, non sodalizzando con il resto della società, chiudendosi in un microcosmo labirintico, spesso feroce. Un altro riferimento importante, benché sia marginale al plot narrativo, è stato “La neve era sporca” di Simenon: ho sempre avuto una sorta di fascinazione per le storie che avessero dei delitti senza movente, un movente giudicabile almeno dal punto di vista legislativo, che in realtà nascondono un’infinità di ragioni da cercarsi nella parte insondabile dell’umano».
Restando sul tema del Male, la figura di don Peppino turba non poco: un prete che, per rincuorare un’anima che si tormenta, quella di Silvestro, riadatta le parole del Diavolo nel deserto («Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; poiché sta scritto: “Egli darà ordini ai suoi angeli a tuo riguardo”) e si arrischia perfino ad un gesto estremo, sacrilego per la sua fede… Temi delle reazioni di certa parte del mondo cattolico?
«Beh, le temo qualora fossero espresse con cieca veemenza. Ne dubito ma se ciò accadesse, e in fondo auspico queste reazioni, significherebbe molto: avrei smosso le coscienze. Per un piccolo film, realizzato tra mille difficoltà e sacrifici, non è poco. Il maggior pregio di un’opera dovrebbe essere proprio questo, far riflettere, aprire un dialogo anche con una provocazione. Tutto è sfuggente in Glory Hole, a cominciare dal protagonista, un personaggio che esala malvagità da ogni poro ma che sarà l’unico capace di emettere un giudizio veritiero, autenticamente duro verso sé stesso, di una durezza in un certo senso inconcepibile, inaccettabile per la morale cattolica.
Il sacerdote, convenzionalmente “il buono”, è invece il primo ad essere corroso dal dubbio riguardo alla salvezza. Una salvezza, un aiuto che, a sua volta, pare arrivare, in modo del tutto particolare, dal proprietario del night (Roberto De Francesco; N.d.R.). L’ambiguità, dunque, e la fragilità dell’essere umano sono il vero cuore pulsante della storia. Il resto può sempre arricchire ma rimane, credo, secondario».