Il nome di Frank Miller evoca subito, nella mente delle persone, alcuni immaginari specifici: soprattutto 300 e Sin City sono i punti di riferimento imprescindibili per uno stile definito, popolato da chiaroscuri con guizzi di colore ma soprattutto scolpito da schematici bianco e neri che alludono alla “purezza” del tratto essenziale (o quintessenziale), usato il minimo per creare mondi capaci di generare immagini che raccontino storie, ben più delle parole stesse. È questo che insegna agli spettatori il documentario Frank Miller – American Genius, presentato alla 16esima Festa del Cinema di Roma come preludio all’incontro con il “genio stesso”, ovvero quel Frank Miller che ha rivoluzionato il mondo del fumetto a stelle e strisce fin dal suo esordio, negli anni ’80.
Un universo, quello dei fumetti, che lo ha attratto fin da bambino ma con il quale si è scontrato in più di un’occasione, complice la sua voglia di indipendenza e di autonomia nei confronti di un “padrone/capo” da dover seguire ad ogni costo insieme a una serie di canoni specifici. Istinto naturale alla fuga che lo ha spinto a mollare la Marvel sul più bello, quando il “suo” Daredevil era tornato un titolo di punta; oppure quando si è lanciato in improbabili – per l’epoca – imprese ispirate dal mondo del fumetto orientale e dei manga, che lo portarono a creare la graphic novel Ronin fino, in conclusione, alla nascita di quel Cavaliere Oscuro cinquantenne così lontano dallo stereotipo del Crociato di Gotham visto tanto nei fumetti quanto in tv. Ma qual è, secondo Miller, il ruolo del fumetto nella vita di ognuno di noi, inclusa ovviamente la sua?
«I fumetti sono morti almeno due volte nel corso della mia vita. Questo perché i lettori sono un po’ melodrammatici: vedono ovunque la fine del mondo, ma la fine del mondo è un argomento da fumetto! La prima volta è stata con l’arrivo della censura negli anni ’50. Si bruciavano addirittura fumetti in pubblico perché erano considerati istigatori di delinquenza. E poi nei ’60, quando ci fu una profonda crisi economica. Ma i fan trovano sempre il modo di tenersi vivi e i fumetti trovano i sistemi più inusuali per raggiungere il pubblico. C’è un sistema distributivo eccezionale in quest’ottica. La verità è che, anche se non facciamo volutamente politica, finiamo per farla. Si tratta di usare le proprie conoscenze e la propria intelligenza per rendere i fumetti potenti, e non fare solo quello che tutti si aspettano che si faccia» ribadendo in tal modo la sua indipendenza creativa ma, soprattutto, replicando seccamente a molte polemiche sorte negli ultimi anni e legate ad alcune opere – la graphic novel Holy Terror! nello specifico – realizzate dal fumettista come reazione immediata, piena di rabbia, agli attacchi dell’11 settembre 2001.
Miller ha quindi rivoluzionato – con rischi e qualche polemica – i capisaldi del fumetto americano, ma è il cinema che, in qualche modo, lo ha consacrato per il suo stile unico ed essenziale. Anche se il suo rapporto con la Settima Arte ha subito altalenanti alti e bassi, costellati di delusioni cocenti e clamorosi successi inaspettati, Frank Miller ha cercato di coltivarlo nel corso degli anni nonostante il coinvolgimento del tutto involontario nella scrittura del suo primo film, ovvero il sequel di Robocop, nel 1990:
«Quando disegno, sono immerso in un mondo tutto mio, nel quale non ho bisogno di nessuno e ho il totale controllo artistico e stilistico del lavoro, ma evito tutti. Dirigere un film, al contrario, è un’esperienza di totale collaborazione dove devi affidare la tua visione nelle mani di decine di persone, anche se alla fine quelli che renderanno davvero i personaggi vivi sono solo gli attori» aveva già dichiarato in un’altra occasione, riprendendo questo discorso sul cinema nell’incontro con il pubblico e confessando anche le sue passioni cinefile: «Stanley Kubrik, Federico Fellini, Fritz Lang, ma anche Frank Capra. Quello da cui però ho imparato tutto nella pratica quotidiana è stato Robert Rodriguez – co-regista con lui di Sin City – che per me è come un fratello ritrovato, dopo essere stati separati alla nascita. Robert è in grado di seguire ogni passaggio di un film: regia, riprese, effetti speciali, colonna sonora, montaggio, visto che fa tutto lui. Con The Spirit, il mio primo film da regista e tratto dai fumetti di Will Eisner, ho scoperto che non riuscivo a dormire più di un paio d’ore al giorno: quando non giravamo, disegnavo continuamente, però era bello. Il fatto che Eisner non fosse più vivo ha impedito che passassi tutto il tempo a discutere con lui su ogni passaggio, ma sentivo il suo spirito aleggiare intorno a me in ogni momento della realizzazione».
In ultima analisi, Frank Miller torna a parlare del rapporto tra fumetto e cinema, riflettendo prima di tutto sul nuovo ruolo riservato alle donne, sull’impatto che il trailer del nuovo The Batman con Robert Pattinson ha avuto su di lui e, infine, sulla questione più annosa: tornerà al cinema come regista il “genio americano” Frank Miller?
«Devo dire che vedere molte più donne nel mondo dei fumetti – soprattutto nelle fiere di settore, in presenza – non mi sorprende e, onestamente, non è nemmeno una novità. È davvero un bene che sia così, io la mia parte l’ho fatta e ora è bello che altri stiano continuando lungo questa strada. Da piccolo leggevo Superboy e anche lì molti personaggi erano femminili, idem in Superman e Batman: molti personaggi protagonisti oggi sono femminili ed è un bene. Quando vado ai festival e alle fiere vedo tantissime donne in più e tutto grazie all’influenza giapponese. C’è voluto del tempo, ma anche questo mondo, finalmente, si è evoluto.
Ad esempio di recente ho visto il trailer del nuovo Batman di Matt Reeves e sono sicuro che lei sia una bella Catwoman e che Pattinson abbia l’aspetto giusto di un Batman efficace con una bella Batmobile. Insomma, ho le aspettative di un qualsiasi fan: spero sia un bel film. In effetti mi piacerebbe guardare attori sconosciuti provare la loro versione, per poter trovare qualcuno capace di portare qualcosa di nuovo nell’interpretazione di Batman. Quando ho fatto Il Cavaliere Oscuro, io pensavo all’estetica e alla voce di Clint Eastwood anche se il corpo era di… Arnold Schwarzenegger.
La regia cinematografica? Assolutamente, certo che sono ancora molto interessato alla regia! Mettiamola così: conoscete qualcuno che ama guidare delle belle macchine? E secondo voi, rifiuterà l’occasione di mettersi alla guida di una Ferrari? Io non rifiuterei mai, anche perché il cinema è il media più potente che ci sia e lavorarci è sempre gratificante. Il cinema è la Ferrari dei mezzi d’espressione».