Dopo Luca Guadagnino e Quentin Tarantino, il regista messicano Alfonso Cuarón è il terzo “pezzo grosso” a chiacchierare di cinema con gli spettatori e gli addetti ai lavori presenti alla Festa del Cinema di Roma. Premio Oscar per Roma (con cui ha vinto anche il Festival del Cinema di Venezia) e autore di film di qualità molto diversi tra loro – dal quasi neorealista Y tu mamá también – Anche tua madre al thriller fantascientifico-spaziale Gravity -, Alfonso Cuarón si concentrato sui film della sua vita, concedendo ampio spazio al suo amore nei confronti del cinema italiano.
Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica
Una passione, quella di Alfonso Cuarón per il cinema italiano, che si è manifestata fin dalla giovane età. Ricorda infatti il regista, che il primo contatto con il nostro cinema avvenne quando lui aveva solo 8 anni ed era – come naturale a quell’età – appassionato soprattutto di film d’avventura. Un giorno, a casa di un cugino, si imbatté però per caso in un film dal titolo “ambiguo”: Ladri di biciclette.
«Dal titolo pensavo fosse un film d’azione!», ha confessato il regista. «Da che ho memoria sono appassionato di cinema ma quando ho visto il film di De Sica è stata per me un’esperienza diversa, mi sono confrontato con un cinema diverso. Fu il punto di partenza di una curiosità per un altro cinema che non fosse solo quello di avventura».
Padre padrone (1977) dei Fratelli Taviani
Neorealismo, ma non solo. Perché se De Sica rimane un modello (come per tanti altri cineasti: si pensi, ad esempio, ad Orson Welles, uno dei suoi più grandi estimatori), non sono da meno neanche Pier Paolo Pasolini («Era al tempo stesso mitico, marxista e umanista e infatti il suo cinema rimane un mistero per me», he detto il regista) e i Fratelli Taviani.
Dei due registi toscani, originari di San Miniato, in provincia di Pisa, Alfonso Cuarón ha citato in particolare Padre padrone, celebre trasposizione dell’omonimo romanzo autobiografico di Gavino Leda: «È stato un film fondamentale nella mia vita. L’ho visto quando vivevo in Messico e già conoscevo molto cinema italiano. Io non capisco come si possano creare film così. Di tanti film capisco come si tirino i fili, ma con i film dei fratelli Taviani non lo comprendo, è un mistero. C’è una umanità così profonda unita ad un approccio mitico ma poi anche una disciplina marxista. E tutto senza nessuna retorica».
I nuovi mostri (1977) di Dino Risi, Mario Monicelli, Ettore Scola
Che dire invece della commedia all’italiana? Uno dei generi più celebri ed apprezzati del nostro cinema? «Lo stile della commedia italiana è stato fondamentale per il cinema di tutto il mondo. C’è la gioia del fare commedia, ma anche un’osservazione sociale e nel caso di Monicelli tanta malinconia della vita unita ad una critica al carattere italiano, una critica fortissima».
Un genere che però, come ha ricordato Alfonso Cuarón, non risplende solo tramite i fulgidi esempi del passato, ma continua a produrre contenuti di qualità anche nel presente: «In seguito le altre commedie italiane sono diventate altro, non una critica ma una celebrazione di questi caratteri. È per questo che a me piace Checco Zalone, mi pare l’unico che continua a criticare. Ma poi qui il casting delle comparse commedianti è pazzesco, unico».
Dillinger è morto (1963) di Marco Ferreri
Non poteva mancare ovviamente un riferimento anche a un cinema italiano “alternativo” come quello sperimentale (e autoriale) di Marco Ferreri, da sempre una piacevole scheggia aliena all’interno della storia del cinema italiano. «Ferreri è un regista fondamentale, forse il più sovversivo mai esistito; sovversivo come Godard ma con l’assurdo di Buñuel. Aveva una capacità di diagnosticare la società e in particolare il maschio che dopo 50 anni è ancora attuale», ha dichiarato Cuaron.
Ha continuato, successivamente, il regista: «I suoi inizi in Spagna con “Los Chicos” e “El Cochechito”, film molto accademici, poi però ha iniziato a rompere le regole e si è dato da solo il permesso di fare tutto, in ogni film. Davanti ad opere di Ferreri è impossibile guardare altrove, è come un incidente stradale, non puoi girare la testa dall’altra parte, è provocatorio. Conosco registi di 40 o 50 anni che non conoscono Ferreri e quando gli faccio vedere “Dillinger è morto” mi dicono che è un capolavoro».
Salvatore Giuliano (1962) di Francesco Rosi
Se vi è un regista italiano che ha profondamente influenzato molti cineasti d’oltreoceano, soprattutto americani, questo è senza ombra di dubbio Francesco Rosi. Considerato un maestro anche da Martin Scorsese, Rosi è stato celebrato anche da Cuarón, che ne ha ricordato in particolare Salvatore Giuliano: «Credo che questo film sia un precursore di “La battaglia di Algeri”, non so se è vero, ma mi pare sia così, ci vedo il medesimo approccio ad un evento storico con una disciplina tremenda della ricostruzione. Io credo che il look del cinema latinoamericano venga proprio da qui, da questo naturalismo».
Il film di Rosi ha permesso a Cuarón di fare luce anche su un altro aspetto secondo lui indicativo del cinema italiano: «Quando si parla di film si parla di registi e sceneggiatori ma mai del vero eroe del cinema italiano: le maestranze. Il direttore della fotografia qui è Gianni Di Venanzo, un vero maestro che è morto giovane; ma la lista è infinita ce ne sono tantissimi e l’elenco arriva fino ad oggi a Dante Ferretti. È una costante del cinema italiano: i collaboratori. Da Tonino Guerra o Ruggero Mastroianni, il montatore di tanti grandi».
L’uomo meccanico (1921) di Andé Deed (alias Cretinetti)
C’è stato spazio anche un tuffo indietro nel tempo, quasi alle origini del cinema – in questo caso italiano -, con riferimento al misconosciuto L’uomo meccanico. «Spesso si dimentica il cinema muto italiano, e con questo film volevo menzionare il Futurismo che è stato un movimento fondamentale per il muto. È difficile trovare film futuristi di quell’epoca, con questo volevo dare un assaggio. Cioè qui c’è uno scontro tra robot, credo sia il primo esempio in assoluto. Un film di 45 minuti precursore di tantissime altre cose. La storia è quella di un robot che diventa una minaccia per la società, cioè “Terminator”. E con un finale felice! Chissà forse Cameron l’ha plagiato! E di nuovo parliamo di maestranze. Questo film viene 6 anni prima di “Metropolis” e guarda che design! E poi è anche divertente, un film d’azione, con un robot che perseguita la gente in strada».
Ha concluso, poi, Cuarón relativamente all’argomento: «Poi i futuristi avevano idee politiche molto diverse dalle mie, ma questo non mi impedisce di ammirare quel che fanno. Certo è diverso quando l’arte diventa propaganda, allora proprio non è più arte. Io amo Virginia Woolf ma so che era un’aristocratica classista che pensava di essere superiore agli altri».
I compagni (1966) di Mario Monicelli
Già citato in precedenza, Alfonso Cuarón si è soffermato nuovamente su Mario Monicelli, ricordando uno dei suoi film più politici, I compagni, interpretato dal grande Marcello Mastroianni: «Questo è un film tragico molto diverso dai soliti di Monicelli con Giuseppe Rotunno e Ruggero Mastroianni al montaggio. E poi c’è come attore Marcello Mastroianni. La questione con Mastroianni è che sembra che tutto sia facile per lui, è un attore con cui hai subito una sensazione di amicizia, ecco perché può prendersi questi rischi e interpretare personaggi anche odiosi, perché lo spettatore non lo giudica. È l’attore che preferisco in tutta la storia del cinema. Hai sempre l’impressione che amasse fare i film più che guardarli, la gioia di lavorare con questa gente, ed è bellissimo».
Ha proseguito sempre il regista messicano: «Poi qui c’è una cosa che è importante in tanti film di Mario Monicelli: il passare del tempo. È un film politico intelligente e non di propaganda perché il centro è l’umanità, non il discorso ideologico ma uno quasi umanitario».
C’eravamo tanto amati (1977) di Ettore Scola
Anche Ettore Scola è stato citato una seconda volta, in questo caso per uno dei film più belli del nostro cinema: C’eravamo tanto amati. «Questo forse è il primo film in cui Scola ha cominciato a combinare il melodramma con la commedia», ha detto Cuarón. «Parlavamo del passare del tempo prima e questo è proprio un film sul passare del tempo, forse il film più bello mai fatto sul passare del tempo. Parla delle convinzioni delle persone, tante volte il mondo cambia e certe convinzioni si rivelano errate, ma l’importante è che siano oneste, invece personaggi come quello di Gassman si corrompono».
Ha proseguito il regista: «Nell’approccio al melodramma le sceneggiature italiane sono molto più realistiche ma è un melodramma che sta davvero immerso nel contesto sociale. Parliamo di tutti registi di un’epoca di forti ideologie, avevano tutti un partito dietro di sé ma una volta di più non sono film ideologici questi, la convinzione è chiara in questa sceneggiatura. La transizione al colore che c’è in questo film è parte di un lavoro sulla forma che sarà più evidente nell’ultima parte della sua carriera con film più stilizzati e quasi musicali. “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana è anche un altro film italiano sul passare del tempo che mi piace molto».
La Dolce Vita (1960) di Federico Fellini
Vi è però un altro regista italiano con il quale Alfonso Cuarón ha un rapporto privilegiato, Federico Fellini. In questo caso, il primo riferimento del regista spagnolo è stato al rapporto tra il finale (ottimista) del suo Roma e quello pessimista de La Dolce Vita felliniana: due sequenze accomunate dall’essere caratterizzate dalla medesima location, la spiaggia. «Posso dirvi che ho utilizzato in tutta la sequenza della spiaggia il rumore del vento di Fellini, quello che era sempre lo stesso nelle sue scene sulla spiaggia».
Ma, nello specifico, che cosa pensa Alfonso Cuarón di Fellini? «È il regista dei registi, è una cosa fondante del cinema moderno, anche interessante quando guardi la sua opera la transizione dal post neorealismo fino a questo imbracciare il felliniano, che è unico. Un maestro tecnico e di forma, uno dei più grandi maestri della tecnica del cinema, con sempre i personaggi sempre al centro, con delle preoccupazioni intorno alla donna, l’ossessione della donna».
Le quattro volte (2010) di Michelangelo Frammartino
Come abbiamo visto, l’interesse di Cuarón verso il cinema italiano non è esclusivamente rivolto al passato, ma è radicato anche nel presente. Aspetto testimoniato anche dal riferimento a un autore complesso e per certi versi estremo come Michelangelo Frammartino, vincitore quest’anno del Gran Premio della Giuria al Festival di Venezia grazie a Il buco, del quale si è parlato del suo Le quattro volte: «Credo che Frammartino sia un maestro dell’osservazione del tempo e del flusso dell’esistenza in questo tempo. Questo è un film che mi pare uno dei più importanti di questo secolo, uno che come dicevo di Padre padrone per me è misterioso. Io non ho capito come si possa fare un film così. Qual è l’approccio creativo, come Frammartino lo ha costruito. La narrativa è come il filo cui appendi i vestiti per stenderli, l’importante alla fine sono gli abiti non il filo, e gli abiti sono i personaggi, il tempo, una preoccupazione tematica».
Elogi sperticati, quelli rivolti da Cuarón al regista italiano, inserito anche in una sorta di Pantheon di autori visionari: «Come Apichatpong anche Frammartino o Steve McQueen rappresentano la transizione verso la videoarte, perché meno narrativi più preoccupati sul tempo e la forma. Cineasti puri come Sokurov, Reygadas, Nuri Bilge Ceylan e Alberto Serra».
Respiro (2002) di Emanuele Crialese
Altro nome borderline del cinema italiano contemporaneo, Emanuale Crialese è stato citato da Cuarón non solo com fulgido esempio della salute del cinema italiano d’autore, ma anche come regista capace di dialogare con le diverse anime del cinema del Bel Paese. In particolare, Cuarón ha fatto riferimento a Respiro.
«Emanuele è grande», ha detto il regista messicano. «Questo è un film che doma la lezione del cinema degli anni ‘40, ‘50 e ‘60. C’è prima la scena in fabbrica, e poi quella camminata sugli scogli che pare un momento da film del primo Visconti o Rossellini, per come mette in relazione personaggio e paesaggi. Poi però c’è un’esplosione di Crialese puro, più moderno e astratto quando si tuffa e tutto funziona perché ancorato alla realtà non solo contestuale ma emotiva. Ho una profonda ammirazione per il cinema di Emanuele Crialese».
Miele (2013) di Valeria Golino
Nel film di Crialese citato da Alfonso Cuarón recitava una splendida Valeria Golino, celebrata dall’autore messicano anche in quanto regista di Miele: «Mi fa arrabbiare che Valeria non sia solo una bravissima attrice, ma anche una delle più importanti registe moderne. Questo film io l’ho visto a Londra ed è stata una sorpresa per me, ha una sicurezza come regista, ma poi sa anche fidarsi del momento, dell’onestà del momento. Lungo tutto il film un pezzo dopo l’altro c’è una forma che ti fa pensare che quel che vedi stia accadendo realmente».
Ha proseguito Alfonso Cuarón: «La tecnica c’è ma non la vedi, non ostruisce. In tanti registi la tecnica è parte del linguaggio ma quel che Valeria fa con “Miele” è che questa tecnica sparisce, è perfetta ma sparisce e tutto il personaggio è in primo piano ed è tutto senza sentimentalismo, tutto è dritto senza retorica e senza giustificazione. Tutti aspirano al momento melodrammatico invece Valeria lo tiene a distanza e penso che in questo sia brava e che questo sia il potere del film».
Lazzaro Felice (2018) di Alice Rohrwacher
La lezione/confessione di Alfonso Cuarón sul cinema italiano si è conclusa citando una delle autrici più importanti del nostro cinema, Alice Rohrwacher, del quale il regista ha celebrato in particolar modo Lazzaro Felice: «È un po’ un film dei Taviani per questa questione mistica e quasi spirituale. Ci sono tanti elementi diversi dentro ma non è mai un pasticcio. Quando una lezione l’hai digerita davvero allora puoi anche cantare con la tua voce e questa voce lo rende importante. C’è una bontà incredibile in questa umanità, sempre con una preoccupazione del dolore sociale. Nel personaggio di Lazzaro non c’è consapevolezza dell’effetto che lui ha sulla gente, il che lo rende bellissimo».