Parigi, 13Arr. è il titolo del nuovo film che riporta, dietro la macchina da presa e davanti ai riflettori della Settima Arte, il regista francese Jacques Audiard, che aveva già convinto il pubblico e le platee cinefile dei festival più importanti con le sue opere Il profeta, Un sapore di ruggine e ossa, I fratelli Sisters e Dheepan – Una nuova vita.
Il nuovo film, una moderna storia di amore e amicizia, giovinezza e sessualità, immortalata in un sontuoso bianco e nero sullo sfondo dei grattacieli parigini di “Les Olympiades”, quartiere nel XIII arrondissement parigino, arriverà nelle sale italiane dal 24 marzo. Ed è proprio il regista Jacques Audiard a presentarlo alla stampa, raccontando i motivi che lo hanno spinto ad abbandonare una sorta di “comfort zone” registica avventurandosi in un genere per lui inedito, ovvero la commedia romantica:
«La Parigi molto americana che fa da sfondo a Parigi, 13Arr. è la sintesi di due desideri sovrapposti che coltivavo da tempo. Da una parte, il desiderio di scrivere una storia d’amore e ambientarla nel 13Arr. della capitale francese; e poi, dopo aver girato tanto e in diverse occasioni a Parigi, posso dire che ne conosco molto bene i limiti: è una città non molto grande, museale, storica e romantica che non avevo voglia di immortalare in quest’ottica. Volevo ritrovarmi a Parigi come se fossi altrove: per questo motivo il 13Arr. e il bianco e nero della fotografia si prestavano proprio bene a questo tipo di narrazione così diversa.
Parigi, 13Arr. è un film che incarna in sé gli ideali di spostamento e globalizzazione; quest’ultima, poi, è ripresa e immortalata anche attraverso l’uso delle numerose app che popolano il film. Questo perché volevo normalizzare questo aspetto interetnico, in base al quale una giovane ragazza cinese può liberamente amare un franco-africano senza scandalizzare né creare problemi. Credetemi, per la società francese è ancora tutto in anticipo sui tempi, ma volevo proprio che questo fosse il mio intento».
In questo strano quadrilatero che anima Parigi, 13Arr., sono protagoniste tre ragazze e un ragazzo che incarnano alla perfezione la generazione dei millennials, giovani che sono lontani dalla leggerezza dei vent’anni ma ancora ben lontani dalle responsabilità dei quaranta. E sembra quasi che il loro mondo, come viene mostrato dall’occhio meccanico di Audiard, sia focalizzato su un punto cardine: il sesso e il ruolo che quest’ultima occupa nella nostra epoca. A tal proposito, si è così espresso il regista:
«Io non ho la pretesa di parlare per i giovani, anche perché non appartengo più – da parecchio – a loro! Volevo solo scrivere una storia d’amore da fin troppo tempo, utilizzando come punto di riferimento un vecchio film di Éric Rohmer nel quale una coppia inizia un fitto dialogo incentrato su qualsiasi argomento, finché non arriva il momento di fare l’amore – dopo una lunga notte – ma non ne hanno più voglia, perché hanno sublimato attraverso le parole tutta la carica erotica. In questo modo è come se facessi un nuovo inventario sul discorso amoroso, declinando in maniera diversa un tempo archetipico fino a diluirlo in un’epoca di app. Oggi si tende ad andare a letto con le persone fin dalla prima sera, e se ce n’è una seconda si ignora completamente quale forma assumerà questo discorso amoroso. Se ci pensate, nel film il discorso più forte e intimo è quello che lega due donne separate solo dallo schermo di un pc».
Audiard ha coraggiosamente inserito in Parigi, 13Arr., anche delle scene di sesso che mostrano i personaggi coinvolti nelle loro dinamiche intime e relazionali: il regista francese ha definito “impensabile” avere sullo schermo dei personaggi che parlano di amore ma non lo fanno, evitando di mostrare l’atto in sé: invece di saltare questo momento fondamentale, preferisce sentirsi a disagio nella fase delle riprese ma immortalare momenti simili, considerandoli giusti e necessari soprattutto ai fini narrativi.
«Le scene d’amore e di sesso sono tutte difficili da girare, come pure quelle di violenza, perché si sa che non sono vere… se lo fossero e si mostrasse tutto, diventerebbe pornografia» ha aggiunto il regista, affermando di aver affiancato agli attori un coreografo e un coach con i quali lavorare sui movimenti, finendo per essere in tal modo totalmente autonomi sul set. Audiard era solo a distanza, pronto a riprenderli.
Uno dei punti di forza di Parigi, 13Arr., oltre agli strepitosi aspetti tecnici, è la costruzione di quattro personaggi credibili e tridimensionali, così tanto contemporanei da muoversi in una città che all’improvviso non sembra più Parigi, ma una metropoli americana o asiatica; quattro personaggi che rappresentano anche un punto di rottura nei confronti di una rappresentazione più inclusiva, che è ancora tutta da costruire nella capitale francese.
Jacques Audiard: «All’inizio di Parigi, 13Arr. ci sono tre personaggi: un ragazzo e due donne e ognuno di loro si sbaglia su ciò che è realmente. Émilie è una punk dell’amore; Camille un dandy arrogante e libertino mentre Nora si sbaglia su ciò che è realmente. È solo il film che darà loro – e dirà loro – cosa sono realmente. C’è un unico personaggio che non si sbaglia mai su se stessa ed è Amber Sweet, la camgirl: lei sa bene chi è, soprattutto dal punto di vista amoroso e sentimentale. È abituata a recitare una parte (per lavoro), mentre gli altri sono solo dei personaggi chiacchieroni che hanno un’idea particolare di loro stessi, perché si piacciono e sono talmente compiaciuti da risultare stucchevoli, convinti come sono di piacere a tutti ad ogni costo. Quanto mi sono divertito a scriverli! Sono dei personaggi un po’ tracotanti, che verrebbe quasi voglia di prendere a schiaffi: in realtà sono solo degli immaturi ancora “adolescenti”, anche se non letteralmente.
Per quanto riguarda invece gli attori che li interpretano, avevo tra le mani questi quattro fuoriclasse: Lucie Zhang che è una studentessa, Makita Samba che ha molta esperienza nel teatro e poca al cinema, Noémie Merlant che, invece, è una navigata attrice già vista nel bellissimo Ritratto della giovane in fiamme e infine Jehnny Beth, che è piuttosto una musicista prestata al cinema. Qualcuno ha poca esperienza al cinema, qualcuno di più… insomma, c’era bisogno di provare come a teatro per poter portare tutti allo stesso livello: così, prima delle riprese, né ho affittato uno e, insieme a tutti i tecnici, li abbiamo visti recitare l’uno davanti all’altro. In tal modo ogni paura è caduta ed eravamo consapevoli di quali fossero le debolezze, come superarle e come evidenziare i punti di forza».
Di sicuro un aspetto centrale del discorso filmico di Audiard è l’attenzione tecnica a rendere Parigi nel modo meno convenzionale e… “parigino” possibile: lontano dalla retorica dell’immagine e dalla convenzionalità, opta per una scelta stilistica specifica – il bianco e nero – complicando la produzione (racconta come in Francia i film in B/N ricevano meno finanziamenti perché considerati meno appetibili per il pubblico) ma inseguendo, infine, un immaginario cinematografico specifico che lo ricollega soprattutto ai film che preferisce, quelli che fin dall’adolescenza lo hanno segnato sancendo il suo stile. Un uso del B/N cinematograficamente ritrovato, come dimostrano anche gli americani Malcolm & Marie e C’mon C’mon.
Jacques Audiard: «Penso che l’impiego del bianco e nero sia una sorta di fantasia per ogni regista, e credo anche che in qualche modo il bianco e nero lotti contro la tv, i suoi standard estetici. Io volevo utilizzarlo ad ogni costo per mostrare Parigi in un altro modo, utilizzando anche questa modalità (non) cromatica che di solito è destinata alla rappresentazione del passato, come succede ad esempio in Belfast di Kenneth Branagh. Io invece lo considero uno standard della nostra era moderna, per mostrare una città europea come se non fosse la solita piccola, museale, romantica Parigi ma proprio quella del 13Arr., sospesa a metà tra una delle tante metropoli americane e una asiatica, immerse in una dimensione senza tempo.
Quando lavoro, non penso mai a cosa farebbe un altro regista al mio posto: con i miei film ho attraversato i generi, ad esempio la mia prossima fatica – che sto girando in questo periodo – sarà una commedia musicale ambientata in Messico, qualcosa di completamente diverso che non ho mai fatto prima. Sono piuttosto un vorace spettatore da quando ho 14 anni, e molti film mi hanno influenzato: dalle opere di Wong Kar-Wai come In the mood for love e Happy Together passando per Sesso, Bugie e Videotape di Soderbergh che ha influenzato Parigi, 13Arr.; in mezzo ci sono anche il già citato Rohmer e poi Ingmar Bergman e Woody Allen. Considero il cinema come un potente educatore, capace di insegnarci sempre qualcosa sugli individui e sulle loro relazioni interpersonali».
L’uso potente del bianco e nero in Parigi, 13Arr. richiama da vicino anche lo stile delle due graphic novel che lo hanno ispirato: Killing and Dying e Amber Sweet di Adrian Tomine (autore nippo-americano), basi fondamentali per l’adattamento totalmente europeo di Audiard che ha creato il personaggio franco-africano di Camille proprio come un “collante” per tenere insieme tutte le storie mostrate. A tal proposito, il regista ha infine dichiarato che:
«Onestamente, non ricordo di aver incontrato delle difficoltà diverse rispetto a quelle che si incontrano, di solito, quando si adatta un romanzo. Mi sono accorto troppo tardi che una delle due graphic novel era in bianco e nero e forse questa scoperta mi ha suggestionato nella scelta, chissà. Ma potrei anche dirvi che quando si adatta un romanzo straniero, un’opera anglosassone o americana, c’è sempre alla base un problema di esotismo che, per me, partecipa all’attrattiva dell’opera. Da francese ne sono attratto, e credo che sia stato questo il filo portante nella mia decisione di adattare l’opera di Tomine, poi la scelta di una Parigi diversa che sembra americana o asiatica e soprattutto l’aspetto interetnico molto presente nelle sue graphic novel. Mi ha proposto dei personaggi che non esistono nel cinema francese e ai quali forse, da solo, non avrei mai pensato.
Da regista, credo sia impossibile raccontare una storia con un finale drastico e negativo: concepisco questa scelta come una scorciatoia. In Parigi, 13Arr. volevo fermamente che i protagonisti fossero consapevoli degli enormi cambiamenti apportati nelle loro vite, la stessa consapevolezza che in letteratura è tipica del romanzo di formazione».