Luciano Ligabue torna alla regia con Made in Italy (qui il trailer), nuovo film in uscita il prossimo 25 gennaio in circa 400 copie, terzo lungometraggio del rocker emiliano dopo i precedenti Radiofreccia (1998) e Da Zero a Dieci (2001).
Per l’occasione un inedito Ligabue regista, sceneggiatore e compositore del film ritrova il sodale Stefano Accorsi come protagonista – dopo il successo di Radiofreccia – insieme alla co-protagonista Kasia Smutniak e agli altri membri del cast Fausto Sciarappa, Walter Leonardi, Filippo Dini, Tobia De Angelis, Alessia Giuliani, Gianluca Gobbi, tutti presenti alla conferenza stampa del film insieme ai produttori Domenico Procacci, Giampaolo Letta e Carlo Rossella delegati per Medusa Film.
Luciano, com’è tornare alla regia dopo così tanto tempo, ovvero vent’anni dopo Radiofreccia e comunque diciassette anni dopo Da Zero a Dieci?
Ligabue: «È tutta colpa di Procacci, erano sempre tutti impegnati in altre produzioni e dopo vent’anni è finalmente arrivata l’occasione giusta! Ovviamente scherzo (ride).»
Cosa significa per te il concetto di cambiamento?
Ligabue: «Siamo tutti consapevoli che il cambiamento fa paura e che non sempre sia foriere di cose buone, soprattutto se uno si áncora a due o tre certezze; si sceglie di non avventurarsi ma il cambiamento è l’essenza stessa della vita, il dinamismo. Cambia il nostro modo di percepire le cose, più che gli eventi stessi ai quali reagiamo in modi diversi: in definitiva, siamo un po’ resistenti alla realtà stessa e alle sue variazioni sul tema. Riko e Sara, i due protagonisti di Made in Italy, vivono in una realtà consolidata e proprio nel momento di crisi l’inquietudine di Riko gli va talmente stretta da costringerlo a dover cambiare punto di vista e sguardo sul mondo: il film è il modo attraverso il quale sceglie di compiere questo percorso di cambiamento.»
C’è stato un momento in cui Made in Italy era già un film?
Ligabue: «Made in Italy nasce, già su carta, come un progetto “balordo” (ride)! Il suo esordio è come concept album negli anni 2000: un vero azzardo. Oggi si ascolta la musica velocemente e realizzare un concept album è quasi un obbligo, come chiedere a qualcuno di seguire un album intero e ascoltarlo tutto da cima a fondo; abbiamo rischiato. A quel punto ho chiamato procacci al quale è piaciuto subito l’album omonimo. Fare film è un mestiere faticoso perché, nel mio caso specifico, faccio i conti con il fluire delle emozioni della musica su un palco praticamente tutti i giorni. Fare un film è progettare le emozioni a tavolino: pezzetti di pochi secondi devono produrre qualcosa che su carta è scaturito direttamente dal cuore. Con questo film mi sono riavvicinato alla regia, superando la mia classica scusa della mancanza di una storia valida. Questa volta c’era.»
Luciano, parlaci dei due rischiosi tentativi di tenere insieme i due piani della storia d’amore e del racconto dell’Italia stessa. Anzi, come vede quest’Italia di cui parli?
Ligabue: «L’Italia la vedo in un’importante fase d’incertezza, ma questo non è importante: la cosa fondamentale è il sentimento che provo. 10 anni fa ho iniziato a parlarne con la mia canzone Buonanotte all’Italia, per provare a raccontare il mio amore per questo paese nonostante i difetti e le frustrazioni; volevo raccontare questo attraverso gli occhi di uno che ha meno privilegi di me e vive una vita normale, che si trasforma in straordinaria, anche per via del suo rapporto con le radici e il paese. Pochi italiani vanno in vacanza in Italia, è vero: siamo assuefatti alla sua bellezza e, allo stesso tempo, al suo malfunzionamento. Da parte mia, sento la necessità di raccontare questa cosa realizzando un film sentimentale perché basato sugli stati d’animo di un gruppo di persone per bene, poco interessanti a livello drammaturgico. Essere brave persone in questo paese non paga, volevo così dar voce a questa categoria poco rappresentata, provando anche “l’impossibile”, ovvero suscitare attraverso il racconto di Made in Italy malinconia in chi resta e non in chi parte.»
Made in Italy: Luciano Ligabue presenta il film insieme al cast
Luciano e Kasia, parliamo un po’ del personaggio di Sara, moglie di Riko.
Ligabue: «Il personaggio di Sara, in realtà, compare nel disco appena citata di sfuggita; però mi sono reso conto, man mano che scrivevo la sceneggiatura, che mi affezionavo sempre di più alla sua forza, alla coerenza, alla sua capacità di sbagliare tanto e in modo clamoroso pur restando, tecnicamente, un personaggio pratico. È una che reclama la vita per come dev’essere secondo lei. Già amavo il personaggio e confesso che, interpretato da Kasia, l’ho amato ancora di più.»
Kasia Smutniak: «Di Sara amo la coerenza, perché lei sa bene quello che vuole ma nonostante tutte le crisi attraversate e vissute rimane stabile; questo perché è una persona risolta che sa bene cosa vuole e che decisioni prendere nei momenti di difficoltà e non esita a farlo. Non è stato facile interpretarla ma confesso che mi ha aiutato la chiarezza alla base del mondo di Luciano: sapevo bene qual era il mondo al quale apparteneva Sara, e non sapevo bene cosa avrei fatto nello specifico ma ne conoscevo le parole.»
Una domanda per Stefano Accorsi: chi è Riko e com’è stato ritrovare Ligabue dopo tutto questo tempo.
Stefano Accorsi: «Riko è un uomo che “sta nella sua vita”; ha vissuto anni diversi e lo incontriamo in un momento si crisi. Il film racconta la vita, non è altro che una grande storia d’amore. Vediamo un uomo in crisi che vorrebbe fuggire, poi decide di cambiare se stesso e non il mondo che lo circonda: capisce che non si deve limitare ad aspettare il cambiamento. È il suo modo di rapportarsi alla propria vita, di cambiare il punto di vista su una vita che non gli appartiene più: così si rigenera. Di solito si cerca sempre di raccontare qualcosa di straordinario, ma non questa volta perché Luciano si fida della costruzione che fa un attore intorno al suo personaggio, riesce a vedere la verità che c’è dietro. Ritrovare Luciano in gran forma e lavorare con un regista che da 18 anni non fa un film, decidendo così di tornare con una storia che ha maturato dentro per tutto questo tempo è un vero privilegio e un onore.»
Luciano, dietro Made in Italy c’era la voglia di raccontare i contrasti del paese attraverso gli occhi della classa operaia?
Ligabue: «Partiamo da un presupposto: per quanto riguarda la classe operaia, confesso di non saperne parlare, pur volendo dare nuova dignità proprio a questa classe citata. Per quanto riguarda tutto il resto, ho seguito il mio istinto: da 30 anni faccio un mestiere che mi ha reso un personaggio pubblico, e i miei amici d’infanzia sono la realtà che frequento di più; la possibilità di provare a dare voce proprio a loro, personaggio per personaggio, e di conseguenza a tutte quelle persone che non urlano e non strepitano ma svolgono la loro vita in silenzio non lamentandosi mai.»
La generazione di mezz’età che difficilmente riesce ad inserirsi nel tessuto sociale del paese secondo te si sentirà rappresentata nel film?
Ligabue: «Tutto il progetto nasce da un seme ripreso nel film in un breve momento, ed è la canzone Non ho che te: è la storia di un uomo che perde il posto di lavoro compiuta la mezz’età e difficilmente ne trova un altro. Questa parte non c’è nel concept album, lo confesso, ma volevo lo stesso inserirla e raccontarla nel film, narrare come Riko possa perdere un proprio posto identitario, senza più sapere chi è e diventando così fragile, perdendo tutte le proprio certezze. Il tempo acquista un altro senso e fa approdare Riko a una nuova crisi profonda. Con Radiofreccia avevo la tendenza a mettere la macchina da presa a picco, puntata verso terra, per ricordare che i personaggi vivevano nella Correggio degli anni 70’, i personaggi erano schiacciati a terra per narrare lo spazio attraverso le avventure di uno solo di loro. Quello è un ritratto generazionale, ma nella media cerco di raccontare una storia specifica nella quale anche gli altri si possano ritrovare.»
Luciano, un’ultima domanda: è possibile, secondo te, spezzare il cordone ombelicale con la provincia?
Ligabue: «Assolutamente no! Penso proprio di no perché, personalmente, ci vivo bene ed è la mia dimensione: ecco perché il mio raggio d’azione spesso è militato geograficamente.»