James Ivory è uno degli ultimi gentiluomini del cinema mondiale. Eleganza e carisma classe 1928, il regista di numerosi cult della cinematografia – soprattutto europea – ha prestato il proprio lungimirante (e curioso) sguardo statunitense alle forme e ai modelli cinematografici del vecchio continente, lanciando nuovi idoli e star in repentina ascesa che si sono, successivamente, imposte sullo schermo d’argento.
Impossibile non citare, a tal proposito, il suo apporto nel successo di un film come Chiamami col tuo nome: grazie al gioiello firmato dal “nostro” Luca Guadagnino – al timone di regia – e con protagonisti Timothée Chalamet e Armie Hammer, Ivory ha vinto un agognato Premio Oscar per la migliore sceneggiatura non originale.
E un nuovo tassello si è aggiunto nel suo già ricco percorso artistico: il Premio alla Carriera durante la 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma, a seguito del quale ha tenuto una masterclass per ripercorrere insieme al pubblico dell’Auditorium la sua carriera in vista del debutto di A Cooler Climate, l’ultima fatica che ha firmato recuperando delle bobine di un documentario girato nel 1960, durante un viaggio nell’estremo Afghanistan che ha così ricordato:
«Ero stato ingaggiato dalla Asian society per girare in India un documentario su Nuova Deli ma, poco dopo le riprese, ricevetti un nuovo messaggio dalla compagnia: mi chiedevano di sfruttare tutto il budget a disposizione girando un nuovo film, magari su un altro paese limitrofo che avesse, proprio in quei mesi, un clima più fresco rispetto all’India. E così ho scelto quello più vicino, ovvero l’Afghanistan. Ho girato tutta la pellicola che avevo a disposizione senza sapere ancora quale fosse l’oggetto del film».
«Poi, una volta terminata l’estate, sono tornato in America e a quel punto ho messo da parte ciò che avevo girato, soprattutto dopo l’incontro con Ismael Merchant», continua Ivory. «È stato proprio lui a farmi leggere The Householder di Ruth Prawer Jhabvala, con la quale poi abbiamo instaurato una bella collaborazione, firmando in tal modo il primo film della neonata Merchent/Ivory. Il girato che avevo sull’Afghanistan lo facevo vedere giusto a qualche amico, pur sentendomi in colpa per non aver mai assemblato in maniera più sensata tutto quel materiale. Quando però è arrivato Giles Gardner, quest’ultimo mi ha sollecitato a trasformare il tutto in un film».

Un marchio riconoscibile di stile ed eleganza formale
Dopo l’incontro con Merchent (compagno sul lavoro e nella vita) e Jhabvala, la carriera di James Ivory ha subito una svolta pressoché inattesa che lo ha portato non solo a fondare la casa di produzione indipendente Merchent/Ivory, ma a portare sullo schermo una serie di numerosi film prodotti in India, tra cui il già citato The Householder e Shakespeare Wallah, tutte produzioni caratterizzate da non indifferenti difficoltà produttive legate alla reperibilità dei fondi e alla difficoltà degli argomenti trattati.
Ma il suo nome, indubbiamente, è legato a doppio filo con la felice stagione del cinema europeo, una volta “abbandonata” la madrepatria americana: titoli come Camera con vista, Maurice, I bostoniani e Quel che resta del giorno hanno impresso il suo nome nell’immaginario collettivo cinefilo, legando il suo stile registico – elegante e rarefatto – ai nomi dei suoi interpreti, sempre pronti ad oscillare tra grandi attori (ad esempio, Anthony Hopkins) e tante “giovani star” che hanno poi incontrato il successo.
A tal proposito, Ivory ha ricordato che: «Ho sempre creduto che, se hai un personaggio giovane sullo schermo, quel personaggio dovrebbe essere interpretato da un giovane attore agli esordi. Perché riesca devi chiamare degli attori non affermati: io mi fido di loro, a volte ne trovo alcuni con un incredibile talento, magari non una forte formazione ma sicuramente una fortissima personalità. Le star, con le quali ho da sempre un ottimo rapporto, si fidano di noi perché i ruoli sono buoni e validi».
«Christopher Reeve, ad esempio, era stato Superman per anni, era alla ricerca disperata di un ruolo valido in cui potesse immedesimarsi, e il ruolo di Basil Ransome ne I bostoniani era, secondo me, perfetto per lui», ha aggiunto. «Offrivamo agli attori un prodotto di qualità e, nonostante molti aspetti siano cambiati nel sistema, credo che si possa fare anche oggi. Mi rifiuto di pensare che tutto questo stia progressivamente scomparendo».
James Ivory rappresenta una garanzia, un marchio riconoscibile di stile ed eleganza formale. È forse tra gli ultimi cineasti in grado di adattare, sullo schermo d’argento, le parole dei grandi autori della letteratura che lo hanno ispirato e guidato lungo il suo percorso: Harry James, Ruth Prawer Jhabvala, Kazuo Ishiguro ed E.M. Forster sono solo alcuni di quei fari, quei punti di riferimento imprescindibili dai quali trarre sempre ispirazione.
«Per me è naturale adattare i libri che ho amato», conclude il regista. «Non ho autori preferiti, un libro sostituisce il precedente e così via… per quanto riguarda l’adattamento, poi, non tutti i libri possono subire questo processo: ad esempio, non adatterei mai e poi mai Camus… tutto dipende dalla propria soggettività comunque: quando ho letto Quel che resta del giorno nel sono rimasto subito conquistato, mentre secondo i più si trattava di un romanzo noioso e prolisso. Il mio criterio di scelta, con i romanzi, è influenzato particolarmente dal tipo di personaggi che incontro. Mi chiedo: sono interessanti? Se non lo fossero, credo proprio che non si andrebbe da nessuna parte. Il mio cinema parte sempre dai personaggi e dagli ambienti nei quali sono immersi».