martedì, Novembre 28, 2023
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Costellazioni di storie al neon: Giacomo Abbruzzese racconta Disco Boy

Una bellissima chiacchierata con Giacomo Abbruzzese, regista e sceneggiatore di Disco Boy, il suo esordio alla regia di un lungometraggio, ora nelle sale grazie a Lucky Red.

Un viaggio sciamanico, misterico ed evocativo, fin nelle radici profonde delle esigenze più oscure dell’animo umano; un cuore di tenebra che pulsa al ritmo dei synth della musica elettronica fino a trasformarsi in un trip psichedelico, che abbandona progressivamente il piano “terreno” più concreto e tradizionale (soprattutto dal punto di vista drammaturgico) cambiando forma e pelle, lasciando campo libero al potere evocativo delle immagini e scivolando in uno spazio onirico che guarda in alto, all’universo vasto e sconfinato, insondabile esattamente come quello interiore che abita dentro ognuno di noi.

Giacomo Abbruzzese, talento italiano classe 1983, con la sua opera prima Disco Boy (qui la recensione) ha scosso le percezioni e i sensi degli spettatori ma anche degli addetti ai lavori, come ha confermato la conquista del prestigioso Orso d’argento al 73° Festival Internazionale del Cinema di Berlino per il miglior contributo artistico. Un film – disponibile nelle sale dal 9 marzo e accompagnato, in un vero e proprio tour in giro per l’Italia, dal regista (qualche data: il 14 a Torino, il 15 a Firenze, il 16 a Milano, il 17 a Genova e infine il 18 a Brescia e il 19 il gran finale a Venezia) – che ha definito la sua opera prima come «ricca di tanta densità; (…) e solo dopo una seconda visione, quando una parte di densità è già stata letta, allora si attraversa un’esperienza quasi più forte e sciamanica».

Abbruzzese riconferma quindi i profondi e stratificati riferimenti che costruiscono il film, livello dopo livello, a partire da una prima lettura più superficiale fino ad un’interpretazione complessa e cosmica che il regista – autore anche della sceneggiatura – conosce bene, come ha dimostrato nel corso della nostra intervista, segnata da un aspetto in particolare: una profonda (e brillante) generosità intellettuale.

La genesi di Disco Boy, tra letteratura, cinema e pittura

Giacomo, Disco Boy è un film talmente evocativo da disorientare i sensi, sorprendendo perfino il piacere retinico dello spettatore: la sua visione è un’esperienza insolita, perché di solito non siamo abituati ad un certo tipo di narrazione che, sul grande schermo, dà più importanza alla forza evocativa delle immagini che alla parola. Eppure, oggi assistiamo ad un continuo processo di semplificazione dei prodotti audiovisivi, ormai a misura di… spettatori distratti.

«Non per niente, ho impiegato dieci anni per realizzare questo film!»

Quante riscritture ci sono state e quante volte ha cambiato pelle il film, nel corso di questi dieci anni?

«Durante il Festival di Berlino, dopo una piccola proiezione privata per il cast, un mio amico sceneggiatore si è meravigliato di come il film fosse fedele al trattamento letto otto anni prima, ed è qualcosa di assolutamente inedito che non succede quasi mai con un film: fin dall’inizio erano previsti i macro-elementi narrativi della storia, con il personaggio bielorusso che attraversava l’Europa insieme con un amico, poi si arruolava nella legione straniera e c’erano infine delle ipnotiche danze tribali a scandire il film. Anche i personaggi erano già tutti presenti, nonostante le (quasi) trenta versioni della sceneggiatura che ho riscritto nel corso degli anni: questo perché stavo cercando una giustezza del racconto, oltre a tentare di risolvere delle questioni produttive. Un budget di tre milioni e mezzo è tanto per un’opera prima e, per essere il più possibile fedele all’idea iniziale, dovevo essere conciso. Per questo motivo Disco Boy non dura, che so, tre ore ma un’ora e mezza, è stato girato in trentadue giorni e, anche sul piano della sceneggiatura, sono andato all’essenziale della storia, tenendo ben presente il concetto di fedeltà rispetto all’originale.

Ogni film è sempre un compromesso con la realtà: un tempo, per finanziare dei prodotti nel mercato del cinema d’autore, c’erano due o tre produttori che, paradossalmente, decidevano permettendo anche a film più “rischiosi” di esistere, come accadeva con i vari Antonioni e Pasolini… oggi, invece, tra persone – tante! – e poi commissioni, bandi e fondi diversi il rischio che si corre è quello di arrotondare troppo, finché il film non perde la propria singolarità. La difficoltà più grande di questi dieci anni è stata quella di mantenere la singolarità, appunto, l’anima di Disco Boy mentre si andavano a cercare dei soldi per finanziarlo tra quelli pubblici e privati; ad esempio, quest’ultimi – tra i quali anche Canal+ – hanno deciso di investire nel progetto perché convinti dalla sceneggiatura e da un piccolissimo montaggio di pochi minuti che restituiva il mood del film e dei miei lavori precedenti. Canal+ ha investito cinquecentomila euro, che è un budget enorme per un film di questo tipo, permettendoci in tal modo di raddoppiare i soldi a disposizione raggiungendo i tre milioni e mezzo, potendo infine realizzare il film che volevo eppure… le difficoltà non si sono esaurite così facilmente. Trovare alcune figure tecniche e convincere chi riteneva Disco Boy impossibile da realizzare; convincere la crew a girare in trentadue giorni e non in quarantacinque, dimostrare che non servivano capitali più alti, tutto questo ha trasformato l’impresa in una missione impossibile, spostando l’asticella su ciò che oggi è possibile fare al cinema. È stata dura e mi auguro, onestamente, di non ripetere la stessa esperienza con il mio prossimo film!»

Un’esperienza sul set travagliata, che ti accomuna a quella vissuta da Francis Ford Coppola sul set di Apocalypse Now… un riferimento non casuale, perché vedendo Disco Boy, soprattutto grazie ad alcune inquadrature, torna subito alla mente il capolavoro di guerra del regista e addirittura l’immortale romanzo di Joseph Conrad che lo ha ispirato, Cuore di tenebra. Quali sono gli altri riferimenti letterari o cinematografici nascosti dietro la scrittura del tuo film?

«Allora, i riferimenti letterari sono molto più forti rispetto a certo cinema che viene associato a Disco Boy: ad esempio, premettendo che Nicolas Winding Refn è un grande regista e che ho amato molto la sua serie Too Old to Die Young, lo considero però un autore lontano da me. Molti hanno visto tracce del suo cinema nel mio film per via di alcune scelte estetiche, magari nell’uso dei neon o della musica elettronica ma… quel rapporto con l’umano sul quale lui riflette attraverso le sue opere, le questioni di iper-violenza non fanno parte del mio cinema. Più che con Refn, il mio legame è con Conrad: Cuore di tenebra è un libro che ho letto quando avevo sedici anni. Magari non ricordo più tutti i dettagli e, esattamente come accade con i film, non ho avuto più il tempo di rileggerlo ma… quelli buoni restano sempre sottopelle.

Oltre a Cuore di tenebra, anche Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline è un altro libro fondamentale legato a Disco Boy, soprattutto per il suo approccio all’argomento della guerra: per come ne parla, per l’approccio all’uomo e per come sceglie di parlare dell’uomo. Inoltre, un altro libro fondamentale – ma poco conosciuto in Italia, eppure molto famoso in Francia – è stato L’ho ucciso io di Marc Raabe, uno scrittore che era un ex legionario il quale, dopo aver perso la mano destra in guerra, imparò prima a scrivere con la sinistra per poi diventare uno scrittore».

Una storia decisamente poco nota qui in Italia.

«Che è invece molto nota in Francia, soprattutto perché in questo libricino racconta proprio il momento esatto in cui, in guerra, ha dovuto uccidere per la prima volta, mosso dalla sopravvivenza. Ha dovuto uccidere un altro del quale non sapeva nulla, ecco perché L’ho ucciso io è un libro fondamentale sulla guerra e su che cos’è in generale».

Abbiamo parlato dei riferimenti letterari e… di quelli cinematografici? Tipo, appunto, Apocalypse Now di Coppola, che echeggia nelle panoramiche del Delta del Niger del tuo film, nei paesaggi selvaggi caratterizzati da questa foresta invalicabile e, in particolare, nella forte affinità con un viaggio interiore che dimostra come la guerra sullo schermo sia solo un pretesto per narrare quella dentro di noi. Inoltre Disco Boy sembra sfuggire a qualunque logica di genere: ad una visione superficiale potrebbe sembrare un war movie, ma non lo è. I generi ti hanno ispirato oppure hai seguito un altro tipo di percorso?

«Quando Apocalypse Now uscì nelle sale fu definito dalla critica bello, potente ma pronto a perdersi un po’ nel finale… la stessa cosa che una buona parte della stampa italiana ha detto del mio film, che è bello ma si perde nella terza parte! Mi divertiva questo parallelismo con il cult di Coppola e sono onorato quando si propone un’esperienza narrativa diversa per lo schermo: poi il film può piacere o non piacere, e sono sicuro che Disco Boy sia un film pronto a dividere ma va bene così. La terza parte non si può dissociare dalle altre due; nelle prime si vede all’opera un cinema più narrativo, mentre nell’ultima siamo di fronte ad uno scioglimento che è un’esperienza diversa, più mentale ed interiore rispetto al personaggio che è pronto a compiere una scelta che è un’implosione. Il problema è che buona parte della stampa italiana probabilmente conosce poco il cinema non narrativo, così quando si confronta con questa tipologia si perde questo tipo di esperienza. L’aspetto più interessante che sto vedendo in questi giorni, ad esempio nelle sale romane, è che un pubblico giovane di venti-trentenni – che ormai non va più al cinema – sta invece tornando a riempire le sale dove proiettano Disco Boy, e questo mi dà speranza sul fatto che anche proponendo un’esperienza diversa, insolita, il film possa comunque dialogare con una generazione più giovane facendo leva su diversi piani di ascolto e creando, infine, un’esperienza di sala bigger than life».

Sciamani al neon, fratellanze astrali e doppi spettrali

Tra i tanti aspetti interessanti che attraversano Disco Boy, ce n’è uno che emerge con prepotenza: il tema del doppio, del riflesso. Aleksei, il protagonista, scappa dal suo passato insieme all’amico fraterno Mikhail; Jomo e sua sorella Udoka, con la loro eterocromia e quegli “occhi sbagliati”, rimandano entrambi ad un mondo sciamanico e quando danzano lo fanno a specchio, riflettendo – appunto – ognuno i movimenti dell’altro, esattamente come accade nella scena finale tra Udoka e Aleksei. Disco Boy è quindi un film di riflessi, doppi spettrali e doppelgänger?

«Non so, forse si parla del doppio perché sono gemelli… (ride, NdR) a questo punto si poteva intitolare pure “gemini” volendo! A parte gli scherzi, mi interessano molto le strutture falsamente simmetriche: penso che la questione del gioco di specchi sia uno dei grandi classici di un certo tipo di cinema che mi ha sempre affascinato, e in qualche modo questo film è incentrato sulla fratellanza in senso molto più vasto, ampio e assoluto. Aleksei e Mikhail sono come fratelli, amici stretti, e questo aspetto si percepisce anche se non viene raccontato apertamente; Jomo e Udoka – e si intuisce fin da subito anche per via del tipo di occhi che hanno – sono entrambi fratello e sorella, probabilmente gemelli e poi la nuova fratellanza impossibile che si vede alla fine, tra Aleksei e Udoka – sorella dell’uomo che ha ucciso – chiude il triangolo ideale costituito da queste tre coppie. Una costruzione intorno alla quale si struttura il film e che, allo stesso tempo, ha dei risvolti quasi cosmici, perché questi personaggi sono come dei pianeti e, ad un certo punto, queste storie o meglio queste costellazioni di storie si mettono in movimento fino a far incrociare le vicende narrate».

Come certe congiunzioni astrali nello spazio, rari fenomeni che si manifestano all’improvviso. Che poi il tema dello spazio, legato a congiunzioni e pianeti, rimanda a livello estetico a diversi momenti del film nei quali giochi con l’immagine, con la percezione e l’impatto che quest’ultima ha sullo spettatore, come quando la pellicola sembra deteriorarsi come attraversata dalla luce – in puro stile psichedelico – oppure ci sono questi colori al neon fluo e dei giochi di luce che, ad un certo punto, finiscono per combaciare con il cielo stellato. Questo contrasto ulteriore tra natura e natura antropizzata è voluto?

«Certamente; nella terza parte c’è tutto questo aspetto soprattutto dietro le immagini, che forse si coglie solo dopo una seconda visione del film in sala. Si assiste ad un progressivo processo che porta i confini a confondersi e a saltare, con la natura che si infiltra da un luogo all’altro: a Parigi si insinua la natura selvaggia della giungla, penetrando spazi diversi e finendo per sconfinare. Tutto il film è costruito con una struttura a spirale e, in qualche modo, proprio quest’ultima ha due centri: da una parte la danza africana, il cuore di tenebra, e poi simbolicamente – sullo schermo – lo scontro, in camera termica, tra Aleksei e Jomo; e questi due centri emanano suoni, immagini, colori e anche temi narrativi che echeggiano per il resto del film».

A proposito di temi narrativi, quando Jomo fa quel discorso estremamente forte – in quanto capo del MEND, il movimento di emancipazione del Delta del Niger – nel quale si scaglia contro gli sfruttatori che vogliono il petrolio per arricchirsi e quindi devastare la sua terra, si sente un’eco forte dal punto di vista politico, perché sembra quasi un’accusa ad un sistema capitalista e colonialista occidentale di cui noi oggi stiamo ancora pagando le conseguenze. C’è quindi anche questa vena politica che scorre in Disco Boy?

«Sì, sicuramente. Per me è un aspetto importante quello politico, se non addirittura fondamentale; allo stesso tempo non mi interessa costruire dei film a(t)tesi, non mi interessa confortare le convinzioni di quelli che guardano, proprio perché io come cinefilo e spettatore non cerco neanche questo: non cerco qualcuno che mi conforti in quello in cui credo, cerco più che altro qualcuno oppure una proposta che destabilizzi quello, appunto, in cui credo fermamente».

L’essere spiazzati di fronte allo schermo, quindi.

«Sì, spesso nei miei film mi interessa esplorare un confine che è difficile da determinare. Ad esempio, uno è quello legato alla lotta armata: quando è accettabile e quando non lo è? Qual è il momento in cui si scivola in qualche modo dalla parte del torto in maniera inequivocabile? Ed è una cosa che sembra semplice da dire oggi, nel 2023, in un contesto più o meno democratico. Ma questa sottile linea cambia continuamente nella storia, e di tanto in tanto sono rivoluzionari, poi terroristi; stiamo parlando di una linea che viene tracciata ogni volta e in modo progressivo e, di solito, dai vincitori. Per esempio mi interessava che Disco Boy raccontasse la storia di due uomini che non sono due buoni o due vittime in senso stretto, come magari una certa retorica vorrebbe esclusivamente raccontare legando questo argomento alla questione migratoria; ma Aleksei e Jomo sono due uomini che osano sognare, immaginare una vita migliore – come tutti, del resto – ed è qualcosa con la quale possiamo empatizzare tutti. Disco Boy non civetta mai con lo spettatore, non cerca una facile empatia con i suoi personaggi e spero che passi sottopelle ad un livello più profondo e sincero, creando un rapporto con il pubblico che inizia, quindi, a seguire questi due ragazzi che, alla fine, sono stati costretti a prendere le armi semplicemente per poter sognare e immaginare un futuro migliore per loro e per la loro comunità, finendo per essere costretti ad ammazzarsi e ad uccidersi, l’uno contro l’altro».

In Disco Boy è molto forte non solo il tema di questa fratellanza spezzata tra due ragazzi, costretti ad imbracciare le armi per credere in un futuro migliore, ma anche quello del senso di colpa, della fuga dal passato – come accade ad Aleksei – e l’idea, infine, dei fantasmi che ritornano non per cercare vendetta: in tutto questo c’è l’eco di tematiche eterne che vanno dalle opere di Shakespeare alla Bibbia. Di nuovo archetipi letterari passati sottopelle in una delle tante fasi di scrittura?

«Certi riferimenti non sono coscienti; sono come dei film che ormai fanno parte di te, hanno costruito il tuo sguardo e il tuo essere al mondo. Un rapporto analogo che mi lega tanto a Shakespeare quanto a certi aspetti della Bibbia: le opere del Bardo le ho lette tutte da adolescente e anche quello non lo leggo da circa vent’anni, però mi è rimasto addosso passandomi sottopelle, come ormai fa parte di ognuno di noi. Per quanto riguarda la Bibbia, invece, nel contesto socio-culturale nel quale sono cresciuto era una normale consuetudine intraprendere il percorso del catechismo e andare in chiesa, in questa grande noia tra messe e catechismi vari: ribadisco, mai annoiato così tanto in vita mia, ma la Bibbia è decisamente molto più interessante di come viene raccontata e, spesso, anche di chi la racconta».

Quando sono le immagini a raccontare una storia

A proposito di riferimenti passati sotto pelle che vanno dalla letteratura al cinema, fino alla fotografia e alla storia dell’arte… guardando Disco Boy mi è venuto in mente il lavoro pittorico di Henri “il Doganiere” Rousseau, con i suoi quadri pronti ad immortalare una natura così naif e impenetrabile caratterizzata da questa forte presenza dell’uomo, colto in un tutt’uno con quest’ultima. In Disco Boy molte scene, soprattutto quelle ambientate lungo il Delta del Niger, vedono queste figure – come quella di Jomo – che, nel cuore della notte, scrutano tra le fronde prima di finire riassorbite dalla stessa natura selvaggia. Quali sono state le ispirazioni artistiche e pittoriche che hanno influenzato il tuo lavoro insieme alla direttrice della fotografia Hélène Louvart?

«Henri Rousseau era una delle reference più iconiche del film perché, in qualche modo, quell’inquadratura di Jomo alla quale tu ti riferivi mi ha fatto pensare subito a quel tipo di immaginario, anche se non è stato semplicissimo: noi eravamo dall’altro lato del fiume, era pieno di zanzare da malaria ed è stato un vero miracolo che siamo sopravvissuti tutti! Rousseau era una delle reference anche per la stanza di Udoka, che esiste realmente e all’inizio, in sceneggiatura, prevedeva proprio la presenza di un quadro del Doganiere sulla parete. Esattamente come il discorso di Shakespeare e della Bibbia, tutte queste reference sono come un occhio che è costruito da tante visioni diverse che sono sia legate alla pittura, ma anche alla video-arte e al cinema; tutti – e tanti – elementi sui quali abbiamo discusso con Hélène».

A proposito del potere evocativo delle immagini, i protagonisti di Disco Boy sono perfetti perché spesso il cinema non è altro che proprio una questione di… immagine: hanno dei volti giusti, ed è un aspetto fondamentale oltre alle loro incredibili capacità. Come hai scelto i vari interpreti, soprattutto Franz Rogowski, un protagonista impenetrabile e laconico che in Italia abbiamo conosciuto grazie a Freaks Out?

«Rogowski è legato al progetto da cinque anni, da quando l’ho visto per la prima volta in un film tedesco nel quale aveva un ruolo secondario, ma era dotato di una carica di violenza ed energia tali da sfuggire ad ogni cliché, grazie ad una recitazione che coinvolge tutto il suo corpo. Però ho cambiato produttori ben tre volte: i secondi che sono entrati nel progetto, francesi, non volevano Rogowski perché all’epoca non portava soldi e volevano optare per un cast tutto francese, ma per me non aveva senso; mentre io lottavo per il cast, Franz uscì temporaneamente dal progetto. Quando cambiai di nuovo produttore e feci dei provini perfino in Russia, senza trovare nessun attore idoneo, l’ho richiamato rimandandogli la sceneggiatura e annunciandogli i vari cambiamenti; dopo una lunga chiacchierata di tre ore – perché Franz è un professionista molto preciso – sul suo personaggio, venne a Roma per il casting. Quando si provina un attore a questi livelli non è per valutare la sua bravura, ma per vedere come dialoga con il personaggio, come lo puoi dirigere e come si incastra con gli altri attori scelti: il triangolo era perfetto. Oggi Franz è una star del cinema europeo è sono contento che Disco Boy, che forse è il suo film più potente, stia uscendo adesso nelle sale, al momento giusto.

Gli altri interpreti, invece, vengono da storie diverse: Morr Ndiaye, che interpreta Jomo, è arrivato in Italia su un barcone, si è fatto tutti i centri di accoglienza e i campi di prigionia in Libia con le torture. L’ho conosciuto tramite un documentario realizzato dalla mia casa di produzione e mi ha colpito molto per le sue parole, mai scontate o banali: per questo lo chiamavo “il poeta”. All’inizio, in Disco Boy, volevo dargli un ruolo piccolo, che si è infine trasformato in un ruolo da protagonista nonostante le reticenze dei produttori. Ma ero convinto che avesse quella personalità molto forte e potente, ricca di ferite profonde e cicatrici complesse, esattamente come immaginavo il personaggio. È stato così all’altezza del compito che per me, oggi, è un attore a tutti gli effetti.

Laëtitia Ky l’abbiamo trovata, invece, dopo aver cercato per due anni ovunque tra Bruxelles, Londra, Roma, la Nigeria e Parigi, ma nessuna attrice sembrava avere quella duplicità che io stavo cercando nel personaggio; nessuna sembrava credibile come ragazza di un villaggio del Delta del Niger e, allo stesso tempo, come icona di un locale notturno che era una ex chiesa, quasi simile ad una Madonna nera e techno. Lei era l’unica ad avere questo tipo di duplicità, e in più – pur non essendo ballerina – sapeva proprio ballare».

Restando in tema, già dal titolo, Disco Boy suggerisce un forte legame con la danza: è lo stesso Jomo a dire che avrebbe voluto fare il ballerino in discoteca, e che sua sorella scappava in città per ballare, tornando così al tema della danza. È quindi fondamentale la colonna sonora: come avete lavorato insieme a Vitalic, questa stella della musica elettronica, concependo una colonna sonora che non è tanto un insieme di suoni che accompagnano le immagini ma un tappeto sonoro, che costruisce a tutti gli effetti la narrazione?

«È stato un processo particolare quello con Vitalic che, insieme a Rogowski e alla Louvart, è nel progetto da più tempo di tutti gli altri. Io gli ho dato delle reference all’interno della sua stessa discografia e in quelle di altri, chiedendogli espressamente quel tipo di mood; sapevo che era capace di creare qualcosa di abissale e, allo stesso tempo, malinconico e lirico. I pezzi che mi ha mandato prima del film li ho trovati incredibilmente pertinenti, così li ho fatti ascoltare agli attori e alla Louvart prima di girare, in modo tale da impregnarsi con quella musica».

Giacomo, in Disco Boy cerchi di compiere un viaggio in un universo poco affrontato al cinema, soprattutto da un punto di vista così maturo e approfondito, che è quello legato al maschile analizzato attraverso il rapporto con se stessi, con i propri commilitoni, con i compagni di fuga, con gli amici fraterni, le sorelle etc. etc. Hai già in mente dei nuovi progetti nei quali affronterai altri universi e mondi? Qualcosa di nuovo?

«Ho in mente molto poco al momento (ride, NdR). In realtà ho già diversi progetti: uno è un documentario internazionale, però è un lavoro molto complesso e pericoloso, quindi non so se me la sento di farlo subito. Poi ci sono due film di finzione: entrambi sono italiani, vediamo se me li fanno girare… uno in particolare è molto controverso dal punto di vista politico. In qualche modo Disco Boy era il mio film politico sulla Francia – ma non solo – mentre quest’altro, che vorrei fosse la mia opera seconda, è il mio film politico sull’Italia. Infine il terzo è più una storia legata alla mia famiglia, a mio nonno e vorrei ambientarla a Taranto negli anni ’60, ma mi piacerebbe che fosse il mio terzo film… vediamo un po’».

La sala buia che accende le luci della magia del cinema

Disco Boy è un film che merita il respiro della sala, perché ha bisogno di quel buio, della disconnessione dal resto del mondo per far immergere il pubblico nelle sue suggestioni visive, oniriche e perturbanti; però oggi siamo in un’epoca che si rapporta con dei nuovi devices, come pure con le piattaforme VOD: è cambiata la fruizione da parte degli spettatori dell’audiovisivo. Secondo te, quale futuro attende il cinema?

«È difficile rispondere… c’è il rischio che il cinema diventi come l’opera, e lo dico con il massimo rispetto eh: un’esperienza quasi museale. Temo soprattutto che ci sia questo rischio e, purtroppo, a volte lo vedo nelle giovani generazioni, con i film che ormai non sono più al centro del dibattitto, quando invece un tempo proprio il nostro immaginario era costruito anche dai film, dalla letteratura e da tutto quello che vivevamo. Oggi ci sono le serie per esempio, e ci sono anche dei prodotti molto belli: il mio è un discorso generale, però nell’insieme sono poche, ed è inevitabilmente difficile fare un prodotto di livello da dieci, quindici ore o più; pochi generi riescono a compiere un’impresa così. In generale il rischio è quello di fare una zuppa allungata mentre invece il film, se è un grande film, ti rimane per sempre.

Il film, poi, non si può ridurre solo al contenuto visivo: ci sono dei film che ho apprezzato e che avevo registrato su VHS vedendo Fuori Orario, ad esempio! I film possono essere visti in tanti modi, però il cinema è un’altra cosa soprattutto quando si parla di certi tipi di opere che sono dei viaggi, letteralmente dei trip, che è poi il tipo di cinema che a me interessa. Quindi è la sala che va difesa ma anche reinventata: non condanno le giovani generazioni, premettendo che nelle proiezioni di questi giorni di Disco Boy in giro per l’Italia le sale sono piene di ragazzi, una roba che mi ha toccato; credo che sia successo perché il film riesce a comunicare con loro, e tra l’altro ho visto anche un pubblico variegato costituito, tra gli altri, dai figli dell’immigrazione, ed è un aspetto del tutto inedito. Questo perché il film può comunicare ad un pubblico ampio e trasversale dotato di una certa sensibilità, ma non credo nemmeno che si tratti di un’opera ermetica o di un film elitista. Disco Boy è un film complesso, sì, ma allo stesso tempo penso che accolga tutti in questo viaggio sullo schermo».

È interessante il discorso che facevi sulle sale e sulla necessità di difenderle.

«Secondo me il cinema nelle sale va appunto difeso: da un lato, lo stato deve sostenere questa cosa; io sono abituato a vedere gli standard francesi degli aiuti da parte dello stato, che dimostrano cosa si può fare verso la cultura, restituendo un’immagine di rinnovamento delle sale e di sostegno alla cultura in generale che è qualcosa di vivo, che si fa tutti i giorni e determina il livello di società in cui viviamo. L’artista in Francia è riconosciuto in quanto tale, è parte integrante della società ed è riconosciuto proprio, perché artista, dallo stato stesso. In Italia… oggettivamente no. Se vieni da un certo tipo di classe sociale poi, inseguire un percorso artistico è quasi impossibile e io lo so bene, perché provengo da una classe popolare e so bene cosa significa. Quindi da un lato c’è la necessità che lo stato capisca non solo l’importanza del cinema, ma quella dell’arte in generale; poi dall’altro versante, dal fronte esercenti, nei quali mi metto in mezzo anch’io perché mi piacerebbe aprire un cinema a Taranto, la città dove sono nato–».

Ma che bello!

«Eh, sì: vorrei tanto farlo, vediamo in futuro. Va reinventata prima di tutto l’esperienza della sala, perché se parliamo di spazi molto vetusti, al di là dello charme – che non c’è – ma se si vede anche male, si sta scomodi e si finisce pure per lasciare il cinema dall’uscita di sicurezza, se si vive un’esperienza scadente… perché mai la gente dovrebbe andare al cinema? Secondo me bisogna immaginare dei cinema come degli spazi vivi, dove anche dopo la proiezione si può restare magari per bere una cosa, immersi in un posto bello e nel clima dello stesso cinema, creando un’esperienza totale. Infatti i festival funzionano ancora molto bene».

Perché sono luoghi di incontro e aggregazione.

«Certo, perché tu vedi un film e poi hai anche il piacere di scambiare delle opinioni con gli altri, anche con degli sconosciuti, e passi così tutta la serata in un posto in cui stai bene, non in un parcheggio triste dove ti ritrovi dopo aver visto un film, continuando a chiederti: “ma perché sono uscito di casa?” Per fortuna ci sono già dei cinema che offrono questo tipo di esperienze: io vivo tra Parigi e Madrid, dove c’è una sala straordinaria dove amo andare che crea proprio questo tipo di concept, dove i ragazzi vanno anche perché il bar è figo, e in più si vanno a vedere un film… e va bene così! Perché comunque, in qualche modo, avvicini anche il pubblico alla settima arte, che così non diventa una roba di nicchia come l’opera. Che poi, a me l’opera piace eh, e ci vado pure ogni tanto però… ecco, il cinema ha anche un rapporto storicamente viscerale con la gente».

Il cinema è un’arte popolare proprio perché colma le solitudini anche del pubblico: era l’intrattenimento di massa che tutti potevano permettersi, nasce in quest’ottica e ha sempre parlato un linguaggio per tutti. Se invece diventa di nicchia, elitario, allora è un problema.

«Sì, e anche come tipo di esperienza sono poche le strutture all’altezza, pronte ad occupare e a promuovere un certo modello di cinema che richiede degli standard specifici: è un problema tecnico che non mi sembra però irrisolvibile, visto che fanno degli sgravi fiscali per qualunque cosa è già ne sono stati fatti di diversi per le sale. Però la direzione per tenerla viva è solo questa, e consiste nella capacità di regalare allo spettatore un’esperienza che va al di là del tempo e che può renderci migliori, in un senso molto più vasto».

Quindi l’esperienza cinema è parte integrante di noi: possiamo dire che siamo i film che abbiamo visto?

«E i libri che abbiamo letto e le persone che abbiamo incontrato».

Ludovica Ottaviani
Ludovica Ottaviani
Imbrattatrice di sudate carte a tempo perso, irrimediabilmente innamorata della settima arte da sempre | Film del cuore: Lo Chiamavano Jeeg Robot | Il più grande regista: Quentin Tarantino | Attore preferito: Gary Oldman | La citazione più bella: "Le parole più belle al mondo non sono Ti Amo, ma È Benigno." (Il Dormiglione)

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