mercoledì, Settembre 11, 2024
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Gabriele Mainetti: “Il cinema deve sospendere l’incredulità”

Immagine di copertina: @Elisabetta Villa

Gabriele Mainetti è, indubbiamente, uno dei nomi di punta del cinema italiano. Insieme a Matteo Rovere (Veloce Come il Vento, Il Primo Re) stanno tentando di percorrere nuovamente la strada del genere, così tanto familiare alla cinematografia italiana degli anni d’oro – ’60-’70 – senza però disdegnare uno sguardo oltre l’oceano, a quel cinema mainstream americano che ha segnato la loro adolescenza, plasmandola in modo definitivo. Ne è stata una prova per Mainetti il debutto folgorante, nel 2015, del cult Lo Chiamavano Jeeg Robot e lo conferma l’atteso arrivo di Freaks Out, seconda fatica del regista romano, in arrivo nelle sale italiane il prossimo 16 dicembre.

Protagonista di uno degli Incontri Ravvicinati durante la Festa del Cinema di Roma, Gabriele Mainetti ha ripercorso insieme al pubblico – e al direttore della Festa Antonio Monda – alcuni dei film più significativi per la sua formazione, spaziando dal cinema italiano al grande cinema americano degli anni ’80 fino a presentare, in anteprima, i primi otto minuti dell’attesa seconda prova da regista che avrebbe voluto portare a RomaFF15 (come accadde con Jeeg Robot) ma che «(…)non è pronto, ma per l’uscita lo sarà! Promesso!», come ha rassicurato scherzando.

Tre clip, tre film e tre autori imprescindibili: il risultato è una chiacchierata informale e creativa sul valore dell’arte e sull’influenza che questi tre pilastri della cinematografia hanno avuto sul suo cinema, sulla sua formazione da regista e sulla sua visione della settima arte. Mario Monicelli, Sergio Leone e Steven Spielberg rappresentano il ponte che permette, al regista, di svelare quei preziosi otto minuti di Freaks Out durante i quali le sue parole acquistano un senso, tra riflessioni sui misfits – o sui “coatti” di cui parla spesso – che popolano una Roma atipica, luoghi “da sogno” come il Circo Mezza Piotta e l’ombra di una minaccia più pericolosa che aleggia sulle teste dei personaggi.

Il primo regista a passare sotto la lente d’ingrandimento pop di Gabriele Mainetti è Mario Monicelli, del quale presenta tre clip tratte dal film cult L’armata Brancaleone (1961) commentandole così: «Per come abbiamo raccontato i Freaks protagonisti di Freaks Out questo è un film che gli si avvicina molto, seguendo una maniera – tutta italiana eh – di narrare dei poveracci, che sono tali ma non smarriscono mai la propria epica. Di Brancaleone mi piace che non perde mai la voglia di inseguire il mito del cavaliere e che per me è un film determinante nel tono.

Monicelli diceva che era importante giocare e divertirsi, non serviva – e non serve mai – affannarsi per inseguire la meraviglia anche a costo di soffrire troppo. Tanto era comunque convinto che lo avrebbero ricordato solo per quattro o cinque film e poi spesso la meraviglia finiva per arrivare da sola. Monicelli è il re della commedia all’italiana vera, non quella becera, approcciava il cinema con una leggerezza tagliente e ricca di tanta cultura. Raccontava di aver fatto il regista perché non sapeva scrivere abbastanza bene per fare lo scrittore e aveva capito che anche come musicista non ce l’avrebbe fatta senza il talento richiesto, per cui a suo dire aveva scelto un mestiere in cui puoi condividere le responsabilità con gli altri. Io e Nicola (Guaglianone, sceneggiatore di Lo Chiamavano Jeeg Robot, NdA) da ragazzi studiavamo da Leo Benvenuti, sceneggiatore che ha lavorato tantissimo con Monicelli. Lo incontravamo nello scantinato a Piazza del Popolo dove ci riceveva, io all’inizio ero più “americanozzo”, mentre Nicola era più per la commedia, poi piano piano ci siamo influenzati a vicenda.

All’inizio in Jeeg Robot volevamo raccontare la storia di un supereroe per caso, poi abbiamo cercato di restituire una tridimensionalità a tutti i personaggi e Nicola mi disse: “ma Ceccotti i superpoteri deve averli per davvero!” Come dice lui, quelli di Jeeg sono personaggi tragici, ma che fanno ridere allo stesso tempo: Enzo ha tutti gli amici morti e si consola con lo squallore dell’autoerotismo; Alessia è stata abusata dal padre ma non lo considera come un uomo “cattivo” e continua a volergli bene; lo Zingaro infine è un criminale che vuole apparire ed è attratto dai social. Ci hanno permesso di divertirci, di giocare, ma anche di emozionarci ed emozionare gli altri».

Da Monicelli Gabriele Mainetti passa poi ad un altro simbolo del cinema italiano nel mondo, ovvero Sergio Leone con il suo primo film Per un pugno di dollari (1964): «Monicelli era più “italiano” in senso stretto, era solo nato a Roma mentre Leone era molto più romano: infatti il suo dialetto romano entra anche dentro i western che ha fatto. Non è che a suo tempo ricevesse dalla critica chissà quale riconoscimento importante, eppure Sergio Leone aveva una sua personale visione politica e raccontava sempre gli ultimi, non certo i grandi, finendo per destrutturare il western consegnandolo proprio nelle mani degli ultimi. Con Leone mi sento a casa, mi sembra che il suo cinema parli sempre a tutti quanti.

La sua visione si è amplificata negli anni, film dopo film; poi ha fatto subito il salto della lingua guardando al mercato internazionale e rilanciava sistematicamente la posta in palio fino a realizzare il suo capolavoro, C’era una volta in America, dove ha destrutturato completamente il noir e il sogno americano: Noodles in fondo è solo uno sfigato, uno che viene preso in giro, proprio come un personaggio di Monicelli se ci pensate. Quel film di fatto ha però spento un fuoco qui in Italia, perché quel tipo di cinema non si è più fatto.

Quentin Tarantino ha detto: “non riuscirò mai a girare una sequenza come il triello finale nel cimitero de Il Buono, il Brutto, il Cattivo”. E sono d’accordo, è irraggiungibile! Ecco, ad esempio credo che Tarantino sia un regista diverso: è uno che guarda sempre al cinema ma non sa raccontare delle storie attraverso delle facce come invece accadeva nei film di Leone, con quei visi indimenticabili che bucavano lo schermo. Leone guardava non so a cosa, forse all’Immagine nel senso più alto».

Ultimo, ma non ultimo, grande maestro passato in rassegna da Gabriele Mainetti è Steven Spielberg del quale si definisce letteralmente «(…) una sua groupie e se lo conoscessi probabilmente gli balbetterei davanti, come faccio spesso quando sono nervoso»:

«Ho scelto delle clip tratte da E. T. L’Extra-Terrestre (1982). Mi piace ricordare che è il primo film che ho visto al cinema, avevo 6 anni: se notate, in tutti i film che ho scelto per questo incontro c’è il grande gioco, la voglia di parlare all’alieno, al bambino profondo nascosto dentro ognuno di noi. Spielberg, paradossalmente, ha imparato tanto dalla televisione e da quando non fa più gli storyboard dei suoi film è meno preciso nelle inquadrature e si vede, ma come regista è anche giusto preservare un margine per stupirsi anche perché la regia non è soltanto la tecnica, ma anche il tono, come dicevo di Monicelli, ciò che restituisci al pubblico con le battute, i dialoghi, i movimenti di macchina, e lui sa fare tutto. Credo sia molto raro essere così emotivi e formalmente “unici”, spesso quando si va sul formalismo si trascura il contenuto e viceversa. E la cosa più bella di tutte è che Spielberg non si vede mai nei suoi film, la sua regia è sempre nascosta dietro la storia!

Il mio sogno è sempre stato fare un cinema come quello di Spielberg, che è il mio regista preferito in assoluto e per tanti motivi. Se lo faccio in uno spazio come il mio, che magari è addirittura “regionale”, devo renderlo credibile, e questo non perché i registi italiani non abbiano frequentato il fantastico, ma perché i personaggi – come accadeva in Lo chiamavano Jeeg Robot – devono portarti a sospendere l’incredulità. Il pubblico deve dire: io ci credo».

E, proprio cavalcando l’onda di quest’ultime dichiarazioni e riconfermando il suo legame totale con un tipo di cinema spettacolare capace di sospendere l’incredulità, ha mostrato ai presenti le prime immagini del prologo dell’atteso Freaks Out, che trasporta subito nel cuore dell’atmosfera sospesa e surreale del Circo Mezza Piotta dove l’imbonitore Israel (Giorgio Tirabassi) invita la folla a prendere posto per ammirare le straordinarie creature capaci di rendere l’immaginazione realtà: c’è Cencio (Pietro Castellitto) che ingoia e sputa insetti mutaforma; Fulvio, l’uomo affetto da ipertricosi (Claudio Santamaria) e che si comporta come un animale in gabbia, almeno prima di pettinarsi il lungo pelo; Matilde (Aurora Giovinazzo) che accende delle lampadine con la bocca almeno finché il rumore assordante di un bomba non rompe quell’atmosfera magica.

Ed è così quindi che il circo viene distrutto per sempre, ridotto ad una “decomposta fiera” e che i protagonisti, i freaks del titolo, si ritrovano a piede libero in una città messa a soqquadro dalla brutalità cieca della Seconda Guerra Mondiale, persi e confusi in una Roma ferita che non riconoscono e senza più la sicurezza della loro casa circense a proteggerli, soli e alla mercé del mondo.

Prima di concludere l’incontro, Gabriele Mainetti rivolge un ultimo appello alla sala e soprattutto al pubblico presente, non solo in vista dell’uscita del film, una sorta di invito accorato per salvare le sale in questi tempi pandemici devastati dal COVID-19: «In Freaks Out ho messo dentro, a livello di bugdet, tutti i soldi che avevo e anche quelli che non ho, non rispettando il consiglio che mi hanno sempre dato, ovvero di non mettere mai in prima persona i soldi in un film. Insegnamento che non sono mai riuscito a seguire, visto che ho investito tutto quello che ho guadagnato con Jeeg in questa nuova fatica. Andate al cinema e salvatemi la vita! Battute a parte, esattamente cinque anni fa Lo chiamavano Jeeg Robot veniva presentato alla Festa di Roma, incredibile. Vedete quanto ci metto, io, a fare le cose?».

Ludovica Ottaviani
Ludovica Ottaviani
Imbrattatrice di sudate carte a tempo perso, irrimediabilmente innamorata della settima arte da sempre | Film del cuore: Lo Chiamavano Jeeg Robot | Il più grande regista: Quentin Tarantino | Attore preferito: Gary Oldman | La citazione più bella: "Le parole più belle al mondo non sono Ti Amo, ma È Benigno." (Il Dormiglione)

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