Un anziano uomo cieco fissa il ricordo di una luce di fronte a sé; con gli occhi della mente – e dell’anima – cerca di intercettare una voce: quella di Dio, per fissare finalmente sulla carta quel volto che, forse inconsciamente, ha cercato di scorgere per un’intera vita. È un’immagine forte ed evocativa, che incarna da sola il significato intrinseco de L’uomo che disegnò Dio, film che segna il grande ritorno di Franco Nero dietro la macchina da presa, diciott’anni dopo il debutto con Forever Blues.
Un’opera – prodotta da Louis Nero e in arrivo nelle sale italiane il prossimo 2 marzo grazie a L’AltroFilm – impegnata e figlia di questo tempo (ma anche, a livello tematico, delle sue contraddizioni) eppure capace di collocarsi fuori da quest’ultimo, riflettendosi in un passato cinefilo (ideale) che guarda al neorealismo e alle illusioni di celluloide proiettate sullo schermo d’argento delle sale buie. Franco Nero, dal canto suo, è un’icona talmente indipendente da potersi permettere tutto questo: “Io sono un uomo liberissimo, per questo motivo lavoro in tutto il mondo” dice di sé, condensando in una frase – e senza tanti giri di parole – l’essenza stessa della propria unicità nel panorama cinematografico mondiale.
Divo dalla bellezza tipicamente americana, indole ribelle e indomita, l’attore ha dimostrato di avere una capacità camaleontica di calarsi nelle vite degli altri interpretando innumerevoli personaggi nei film più disparati, attraversando i generi, i decenni e le collaborazioni con famosi cineasti, sia italiani che mondiali. Ma dietro Franco Nero c’è pur sempre Francesco Clemente Giuseppe Sparanero, un uomo pronto a mettersi alla prova sia sul fronte umano che su quello artistico grazie ad un piccolo film dalle profonde ambizioni, che prova a raccontare la realtà che ci circonda attraverso la lente del cinema, stipulando un patto con lo spettatore: la sospensione dell’incredulità di fronte ad una storia fictional ma better than life, più vera del vero, capace di indurre il pubblico in profonde riflessioni.
Già a partire da un titolo così specifico e suggestivo che, esattamente come un assist cruciale durante una partita di calcio, ha permesso a me e a Franco Nero di iniziare una lunga chiacchierata in un tranquillo venerdì mattina di febbraio, tra un caffè, un aneddoto, uno squarcio strappato nel cuore della storia del cinema e una riflessione importante; tutti elementi che hanno trasformato un’intervista telefonica in un profondo viaggio nelle innumerevoli sfaccettature di uno degli ultimi divi del nostro cinema.
Una, nessuna… centomila versioni di Franco Nero.
La scintilla di un’idea
Franco, L’uomo che disegnò Dio contiene già nel titolo una traccia tematica molto forte: quella del patto, stipulato da una parte tra l’uomo e Dio, e dall’altra tra l’uomo e il diavolo, inteso come simulacro di tentazioni e falsi idoli. La nostra realtà si muove quindi tra questi due poli opposti, dai quali scaturisce il precario equilibrio del nostro mondo?
«È logico: è da lì che scaturisce il mondo. Se la mettiamo così… sì, assolutamente! (Ride, NdR). Il film ha molte tematiche in questo senso e molti messaggi da dare: il primo, quello che ho sempre voluto trasmettere, era legato alla cecità. Mi ha sempre affascinato il mondo della cecità e da anni non vedevo l’ora di fare il film… ho sofferto per farlo, ma alla fine ci sono riuscito. Poi, tra i tanti altri temi, tratta anche quello dell’immigrazione, di queste due giovani donne – madre e figlia – scampate alla guerra in Africa che chiedono rifugio in Italia; poi si parla della tv spazzatura, che approfitta delle disgrazie altrui per fare audience e, nel caso specifico de L’uomo che disegnò Dio, vogliono quindi approfittarsi di questo cieco – di nome Emanuele – per catturare l’attenzione del pubblico. Inoltre, il film affronta anche altri argomenti come il razzismo, la solitudine e la vecchiaia».
Emanuele, il tuo personaggio, segue un arco narrativo interessante che ricalca in parte i cinque passaggi dell’elaborazione del lutto, passando dall’essere una sorta di patriarca biblico disilluso e in conflitto con Dio fino a vedere, metaforicamente, il volto dell’Altissimo. Come avete lavorato, insieme agli sceneggiatori Eugenio Masciari e Lorenzo De Luca alla costruzione di questo personaggio?
«Allora, anni fa Eugenio Masciari mi diede una storia che si chiamava “Emanuele”: disse che l’aveva tratta da un fatto vero successo a Torino, dove c’era questo cieco che, sentendo parlare le persone, scolpiva dei visi con la plastilina. La sua storia mi è stata rifiutata da molte produzioni: non andava bene, era vecchia secondo loro… allora due anni fa, dato che sono uno testardo e voglio portare sempre a termine tutto quello che penso possa essere buono, ho chiamato il mio amico sceneggiatore Lorenzo De Luca e gli ho detto: “Lorenzo, mettiamoci al lavoro, dobbiamo riscrivere la sceneggiatura come voglio io, come la intendo io”. E così l’abbiamo riscritta totalmente. Per esempio: in genere i talk show si fanno negli studi televisivi, e invece nel film l’ho ambientato in un circo. Ho pensato di fare una cosa nuova e mi è piaciuta questa ambientazione. Ho lottato per poter fare il film perché i prodotti di qualità non sono facili da realizzare: spesso bisogna far parte di determinati ambienti, inutile dirlo… ma io sono un uomo totalmente libero, ecco perché lavoro in tutto il mondo. Non ho bisogno di agganci e, anche se è stata molto dura, penso di essere abbastanza soddisfatto del lavoro che ho fatto».
Circo mediatico e morbosità voyeuristica
Ne L’uomo che disegnò Dio, a colpire l’immaginario dello spettatore è di sicuro questa rappresentazione – estremamente critica e tagliente – della morbosità voyeuristica di un certo tipo di narrazione televisiva, interessata ad ottenere ad ogni costo uno shock emotivo in grado di alzare l’indice dell’audience, vero e proprio demiurgo moderno che determina le sorti dei palinsesti, sancendo chi trionferà (a colpi di share) e chi perirà, dimenticato dall’opinione pubblica. Nel film, il talent show che sceglie di puntare tutto sulla figura mistica ed enigmatica di Emanuele non ha la propria sede in uno studio tv ma in un tendone da circo, sotto il quale ogni carattere si trasforma presto in caricatura, deformando l’evidenza e raccontando molto bene, attraverso la metafora grottesca, il nostro quotidiano e la tv “del dolore” che accompagna le abitudinarie giornate.
Tra i tanti, hai tirato in ballo soprattutto un argomento molto interessante che è proprio quello della rappresentazione del circo perché, ne L’uomo che disegnò Dio, si assiste ad una sorta di demitizzazione del circo nell’accezione felliniana, portatore sano di sogni e di splendide illusioni. Qui il circo diventa invece la metafora di un meccanismo morboso e voyeuristico, di un talk show che specula sul dolore. Un’immagine molto forte insieme a quella sulla cecità, che arriva subito allo spettatore…
«Il circo è sempre stato una mia fissazione: io vivevo a Parma da ragazzo e di fronte a casa mia c’era proprio un circo. Ogni giorno andavo ad aiutare, non vedevo l’ora di tornare a casa da scuola per poter andare lì: sono sempre stato un po’ come Fellini sotto questo punto di vista. Lui aveva la mania del circo e anch’io lo stesso, forse è tipico di un emiliano… praticamente ho trascorso lì la mia infanzia. Pensa che a casa ho svariati quadri di clown! E negli anni passati, quando venivano dei circhi a Roma, mi invitavano sempre a vedere gli spettacoli, anzi, proprio a partecipare facendo qualche cosina!»
L’uomo che disegnò Dio è una fiaba moderna sul processo che porta a svelare le idiosincrasie del nostro mondo ponendole come davanti ad uno specchio… questa almeno è la sensazione che ho avuto vedendolo.
«Infatti, se ci pensi, c’è la bambina che ad un certo punto del film dice ad Emanuele: “Vedo che sai fare tutti i ritratti, ma sapresti rifare Dio?” e lui risponde: “Io dovrei sentire la Sua voce”».
Cosa ne pensi, anche se ne abbiamo già parlato, di questa società in cui ci troviamo, votata ad apparire a tutti i costi, con questa morbosità voyeuristica e mediatica che in parte la attraversa?
«Eh… (sospira, NdR) come hai detto, L’uomo che disegnò Dio è una fiaba moderna: noi viviamo in questo mondo in cui devi assolutamente sopravvivere e se non hai certi agganci è difficile… perciò ho voluto mettere a fuoco anche questo aspetto attraverso la scena che interpreto con Massimo Ranieri: quel momento dice tutto. È fatta in un modo divertente, ma ha un grosso messaggio».
Nella scena che dividi con Massimo Ranieri, appunto, siete entrambi in quel momento due personaggi emblematici che rimandano ad altro, ad un discorso molto più grande che riprende i fili di quei temi importanti già affrontati dal film, dal razzismo alla solitudine, passando anche per il processo della vecchiaia, la malinconia e l’inclusione. Com’è stato, da regista, tornare dietro la macchina da presa sul set di un film così impegnato e forte, a diciott’anni di distanza da Forever Blues?
«È stata un’avventura molto, molto dura (ride, NdR) e non è stato semplice. Abbiamo girato a Torino e pensa che, quando abbiamo iniziato con le riprese fuori in esterna, c’erano 38 gradi, mentre all’interno del circo ben 47 perché dovevamo chiudere totalmente il tendone per non far passare la luce. Perciò è stata molto dura; è stato uno sforzo un po’ sovrumano realizzare questo film e c’erano tutti i giovani che dicevano: “Oh, ma questo qui mo schiatta”, e invece… son “schiattati” loro e non io! (ride, NdR). Ho la tempra dura, sono uno che se crede in qualcosa arriva fino in fondo, soprattutto quando si tratta di un’esperienza incredibile come questa: poter far recitare delle attrici non professioniste – come quelle che interpretano la bambina e sua madre – mi ha dato grandissime soddisfazioni, come del resto sono soddisfatto anche degli altri attori: tutti erano contenti della mia regia, di come li dirigevo, perché ho sempre pensato che, nella vita cinematografica, i migliori registi fossero gli attori.
Se andiamo nel passato, da Charlie Chaplin a Buster Keaton, dai nostri Vittorio De Sica e Pietro Germi tra gli italiani, fino ai contemporanei Clint Eastwood, Robert Redford e Kevin Costner, tutti gli attori che fanno la regia riescono a dirigere meglio gli attori sul set di qualsiasi altro regista, perché noi stessi siamo (appunto) attori e riusciamo a capire subito se l’attore dice una battuta un po’ stonata o se non è vero. E, infatti, mi son trovato bene con i professionisti… naturalmente Robert Davi e soprattutto Kevin Spacey: anzi, lui umilmente mi chiedeva: “Bene così, Franco?”. Sì che stava girando delle scene molto semplici eh, ma lui mi chiedeva come stava andando perché… i grandi sono anche umili, ho sempre visto questo nella mia vita».
Il richiamo dell’avventura
E infatti… che esperienza è stata ritrovarsi sul set a dirigere, in due camei eccellenti, i Premi Oscar Kevin Spacey e Faye Dunaway?
«Quando ho finito di girare con loro, ad esempio, c’era Faye Dunaway che continuava a ripetermi: “Franco, chiamami quando vuoi!”. Lei era così felice e contenta di aver fatto quella scena con me che ripeteva spesso: “Guarda, sono sempre a tua disposizione, eh”. Ciò vuol dire che si sono trovati molto bene con me in qualità di regista, e la stessa cosa con Kevin Spacey».
Pur essendo dei camei a tutti gli effetti, con loro due avete lavorato seguendo la sceneggiatura oppure vi siete abbandonati anche all’improvvisazione, magari sulle ali dell’emozione?
«No, no, no: abbiamo lavorato seguendo la sceneggiatura, anche perché ci ho lavorato molto insieme a Lorenzo De Luca; ma giorni e giorni e giorni eh, perciò ho scelto di seguirla alla lettera, un po’ all’americana. Sì, magari qualcosina durante la lavorazione è stata improvvisata, qualche piccola battuta è venuta fuori a seconda della situazione o delle suggestioni delle location… ho cambiato qualche dettaglio, ma al 90-95% è rimasta sempre la stessa sceneggiatura originale».
Un talento camaleontico
In un film come L’uomo che disegnò Dio, nel quale i tanti temi trattati finiscono per costruire una complessa allegoria macroscopica del reale, svelando le radici delle idiosincrasie che contraddistinguono il nostro presente a costo di caricarne alcuni aspetti “grotteschi” (o semplicemente enfatizzati), i personaggi sono fondamentali. Evocative pedine sullo scacchiere dell’esistenza, i vari characters si muovono inseguendo le rispettive traiettorie, tutte funzionali per permettere ad Emanuele di completare il proprio arco narrativo di trasformazione: attraverso quattro step, esce dalla propria comfort zone abituale (nella quale lo spettatore lo “incontra” nei primissimi minuti) per poi attraversare una zona d’ombra di paura e cambiamento che gli permette, infine, di maturare e cambiare, garantendo allo stesso Franco Nero di dimostrare il proprio indiscutibile talento davanti la macchina da presa.
Il tuo personaggio, Emanuele, si presenta come un uomo burbero, spigoloso e tagliente, per poi compiere un arco narrativo significativo nel cuore della propria consapevolezza: dove si colloca nella tua galleria di meravigliosi anti-eroi laconici e tormentati? Siamo un po’ nei territori di molti western da te interpretati con questa figura di cavaliere, che tu hai – tra l’altro – già ricoperto in tante occasioni così diverse?
«Mah, questo è un personaggio completamente nuovo per me. Ho avuto la fortuna, nella mia vita, di lavorare con i più grandi attori al mondo tra cui un certo… Laurence Olivier (ride, NdR) che era il più grande di tutti. Mi disse una volta, io ero giovanissimo: “Vedi Franco, tu hai un fisico all’americana: potresti fare sempre l’eroe, ma dovresti girare però giusto un film all’anno, un film commerciale, proprio come fanno gli attori americani, sempre con la stessa faccia. Però… che monotonia, caro! Oppure fai l’attore e cambia ruolo in continuazione. Avrai alti e bassi nella tua carriera, ma in the long run, a lungo andare, avrai dei frutti”, e io ho seguito il suo consiglio. Difatti mi sono divertito tutta la mia vita: ho fatto tutti i personaggi possibili; ho interpretato personaggi di trenta nazionalità differenti, ho attraversato tutti i generi di film, dal western al film poliziesco, dalla commedia musicale ai film politici fino ai gialli, ai film per bambini e infine quelli grotteschi.
Ho fatto di tutto, mi sono divertito e continuo a divertirmi: ad esempio, quest’anno avevo un po’ di tempo libero quando mi chiama la Sony, dall’America, e mi chiede: “Signor Nero, lei farebbe un film insieme a Russell Crowe?”. “Come no!”, ho risposto. Russell Crowe ha sempre detto che fa l’attore per me, che da giovane – in Australia – vedeva i miei film. Quindi mi sono divertito a fare il papa in questo film con lui che fa l’esorcista e che si intitola proprio L’esorcista del Papa. Ho cambiato completamente registro, poi: ad esempio, sono andato a fare un piccolo film per un giovane regista italiano incentrato su una storia d’amore tra due anziani: un’opera bellissima girata insieme ad Anna Galiena dove interpreto un personaggio dimesso, timido; mi sono molto divertito e continuo a farlo, ripeto, cambiando in continuazione».
E proprio a tal proposito, visto che cambi pelle in modo costante e con risultati clamorosi, dimostrando una grandissima capacità camaleontica… ti abbiamo visto proprio di recente in un cameo nella serie Sky Django, diretta da Francesca Comencini.
«È una storia un po’ strana quella dietro Django: io dovevo tornare nei panni del “vero” Django, solo un po’ più anziano. Due anni fa mi chiama una produzione americana con un grande sceneggiatore, John Sayles, che ha scritto questa sceneggiatura su cui è basato il film. Naturalmente l’arrivo del Covid ha massacrato tutto, soprattutto lì in America: si sono spaventati e, a causa del virus, hanno chiuso i set, finché anche il film non è stato cancellato, vittima di una grandissima sfortuna. In quel momento continuava a chiamarmi Riccardo Tozzi di Cattleya, dicendomi: “Franco, Franco! Tu non puoi non esserci in questa cosa che stiamo girando”, ma io rispondevo “No, la televisione non la voglio fare, non me ne frega niente!”. “Ma no, guarda, è un omaggio”, continuava a dirmi e ha insistito talmente tanto che, alla fine, mi ha convinto e ho accettato ad una serie di condizioni: il cameo doveva essere girato nel giro di una settimana e non di più, altrimenti non l’avrei fatto manco morto.
Alla fine mi hanno accontentato, sono andato in Romania e così ho fatto queste quattro-cinque scene – adesso non ricordo bene – dove interpreto un reverendo; l’ho fatto così, come si dice, “cotto e mangiato” e poi sono andato via ma l’ho interpretato volentieri, perché quando sto sul set mi diverto: mi piace creare anche come attore. E l’interprete di Django nella serie tv, Matthias Schoenaerts, era strafelice di poter lavorare con me; è stato piacevole e mi son trovato molto bene anche con la Comencini».
Alla luce di questo aneddoto allora ti chiedo: che rapporto è rimasto con il personaggio di Django? Questa è proprio una piccola curiosità che mi viene in mente sentendoti parlare.
«Dovresti leggere il mio libro, sai? (ride, NdR) Si chiama Django e gli altri ed è edito da Rai Libri, perché solo leggendolo capirai molte cose su Django».
Sembra un legame simbiotico che, in qualche modo, continua riportandoti sempre al principio…
«Guarda, adesso dovremmo ritornare a girare questo Django Lives! – Django Vive! di Sayles: il film sarà ambientato nel 1914-15, quando in America iniziavano a diffondersi i primi studi cinematografici; è una bellissima sceneggiatura, speriamo di poterlo fare quest’anno».
Una fugace occhiata nel futuro
Franco, ne approfitto: tu hai una carriera lunghissima alle spalle, estremamente ricca e variegata, nel corso della quale hai interpretato tanti personaggi e hai cambiato pelle talmente tante volte…
«In fondo, ho solo 240 film all’attivo (ride, NdR)».
Infatti volevo provare a ricordarli tutti, ma non è possibile! Hai incontrato artisticamente dei grandissimi maestri della settima arte, sia italiani che internazionali: quali cambiamenti noti nella scena cinematografica attuale? Con quali registi ti piacerebbe lavorare in futuro? Magari c’è anche qualcuno con il quale hai già collaborato, come ad esempio lo stesso Louis Nero, che ti ha diretto in alcuni film sperimentali molto particolari…
«Ma io cambio spesso, sono un attore stranissimo: passo da set che hanno una troupe di sette persone a film dove c’è un’intera troupe di 500 persone; mi piace cambiare. Quando mi dicono: “Che prezzo hai?”, rispondo che dipende, che non ho un prezzo: se non hai i soldi te lo faccio ugualmente il film, se hai i soldi mi paghi tranquillamente. Non c’è una regola per me, dipende dalla bontà del progetto. Ad esempio, due anni fa ho girato un film a Cuba che volevo fare ad ogni costo: si chiamava Havana Kyrie ed è stata la prima co-produzione italo-cubana nella storia del nostro cinema. Come sono riuscito a farlo? Allora, prima sono andato a Cuba in vacanza; poi mi hanno detto: “Guarda che c’è la figlia di Raúl Castro che è pazza di te e vuole conoscerti, perché sei un mito”. Quando l’ho incontrata, le ho detto che avrei voluto fare questo film proprio lì a Cuba e dopo le ho raccontato la storia. Al che lei, in spagnolo, ha detto a tutti i presenti: “Esta pelicula hay que hacerla”, bisogna farla ad ogni costo!»
Un risultato enorme!
«Adesso ho ancora qualche piccolo sassolino da togliermi, qualche altro progetto che vorrei realizzare: per esempio adesso, in questo momento, sto già lottando per girare un film ambientato sempre a Cuba e intitolato Black beans and rice, fagioli neri e riso – che è poi la pietanza cubana per eccellenza – ed è una storia bellissima sulla quale ho lavorato insieme ad un mio amico, uno scrittore newyorkese che ha collaborato anche con John Turturro e Brandon Cole. Hai presente Green Book? Ecco, anche questo è un road movie: la storia di un viaggio che un padre e un figlio devono compiere fino a Cuba per spargere le ceneri della madre morta del ragazzo, originaria dell’isola. Solo che i due non si conoscono per niente, ma nonostante le differenze partono insieme per questo viaggio, rispettando le ultime volontà della donna, che rimettono insieme questo padre – trombettista in un jazz club di Miami – e un figlio che nemmeno sapeva di avere, diventando entrambi protagonisti di un viaggio commovente che li vede prima nemici e poi sempre più uniti».
Sentendoti raccontare questa storia meravigliosa, mi viene in mente che dall’avvento del Covid abbiamo assistito ad un boom delle piattaforme di streaming che hanno cambiato un po’ la nostra fruizione e la narrazione proprio delle storie. Pensi che, lentamente, le piattaforme metteranno in ombra il grande schermo oppure ci sarà sempre bisogno della sala per raccontare, appunto, delle grandi storie?
«Io sono un amante della sala: le piattaforme non le posso vedere! Non ho mai visto un film su Netflix, sono sincero, perché secondo me il cinema va visto appunto… al cinema, sul grande schermo, in una sala buia e solo alla fine deciderai tu se ti è piaciuto o meno ciò che hai visto. A casa non è la stessa cosa: c’è quello che ti chiama, poi stai al telefono, devi ancora finire di mangiare e c’è il rumore dei piatti, di cose etc. etc. etc., lasciamo perdere. Io sono amante del grande schermo e basta, e lotterò sempre per il grande schermo esattamente come il mio amico Quentin Tarantino. Me l’ha sempre detto, e lui non solo è un amante del grande schermo ma anche della pellicola, e mi ha ripetuto nel corso di innumerevoli occasioni: “Se un giorno mi diranno di fare un film in digitale, io smetterò di fare il cinema”. E io la penso uguale».
Oltre a quella che mi hai già raccontato, quali altri grandi storie ti piacerebbe raccontare sia da attore ma anche da regista? Quali ti potrebbero interessare?
«Mah, guarda, ce ne sono davvero tante: per fortuna sono un vulcano di idee e di storie, ma ce n’è una in particolare che… spero solo, un giorno, di poterla dirigere, anche perché anni fa la scrisse uno dei più grandi registi italiani – almeno, secondo me – che era Elio Petri. Un grandissimo regista che scrisse questa storia morendo, purtroppo, troppo presto per poterla realizzare. Tra l’altro, ho ancora dodici pagine scritte dal più grande sceneggiatore al mondo, ovvero il Robert Bolt che ha firmato, tra gli altri, Lawrence d’Arabia, Il dottor Zivago e Un uomo per tutte le stagioni e che ha criticato questa storia, apprezzandola comunque molto; dato che non la posso più interpretare come attore, perché lì ci vuole un trentacinquenne o roba del genere, mi piacerebbe dirigerla in qualità di regista: spero, prima o poi, di riuscire a farla».
Io incrocio le dita anche perché c’è bisogno di nuove storie, anzi, del ritorno di grandi storie sullo schermo.
«Le grandi storie, brava! Due anni fa ho interpretato un personaggio in una storia bellissima, girata a Zagabria e che si intitolava The Match – la grande partita: è tratta da un fatto vero e vede protagonisti dei detenuti dei campi di concentramento in Ungheria che, per salvarsi, accettano di giocare a pallone con i nazisti con la clausola di non vincere ma… contro ogni pronostico, trionfano e per questo vengono uccisi. Ci vogliono le belle storie, come quella alla base del mio ultimo film, L’uomo che disegnò Dio, e che ho voluto raccontare ad ogni costo. Per carità, una storia può piacere o non piacere eh, ma ho voluto fare un film proprio come si faceva negli anni ‘50-’60, girandola anche in quel modo: oggi girano tutti come nei videoclip, montando velocemente; no, ho cercato proprio di raccontare la storia con la macchina da presa».
Ed emotivamente è una scelta forte, perché sono le immagini a raccontare la storia e non le parole didascaliche che sottolineano gli eventi, fino a diventare un rumore di fondo… Ultima domanda in conclusione: guardando L’uomo che disegnò Dio mi è venuta in mente la frase di Dostoevskij “La bellezza salverà il mondo”, perché dopo aver visto il film sembra che anche l’arte, l’amore e la gentilezza lo salveranno. Tu che ne pensi?
«E come no. La gentilezza, la bellezza, l’arte sono tutte cose che salveranno il mondo insieme anche alla musica ovviamente, che cura tutti i malanni. Ad esempio, ne L’uomo che disegnò Dio ho avuto quest’idea: mi è sempre piaciuto il duduk, questo strumento alla base della musica armena, e mi sono ripromesso di inserirlo in un film prima o poi. Infatti ho chiesto a Louis Nero se potevamo trovare un musicista in grado di usare il duduk per la colonna sonora e, in tal modo, abbiamo conosciuto il figlio di uno dei fratelli Taviani che ha composto una musica stupenda, per conto mio molto originale. Ne sono talmente orgoglioso che, infatti, sul finale ho chiesto a una mia amica cantante lirica di eseguire una canzone il cui testo recita (più o meno): “aiutaci, oh Signore, salvaci da questo mondo”».
Che è poi calzante col film, che è pervaso di un certo misticismo…
«E ci stava proprio bene per L’uomo che disegnò Dio».