Damien Chazelle è un enfant prodige – ormai cresciuto – che si è imposto, sulla scena mondiale, con una manciata di titoli cult: dal folgorante Whiplash passando per l’Oscar di La La Land fino a First Man e alla sua ultima fatica, quell’opulento Babylon atteso nelle sale per il 19 gennaio che ha già diviso la critica e il pubblico americani, per via della sua eccessiva e rutilante rappresentazione della Hollywood perduta della Golden Age, immortalata (sapientemente) al crepuscolo tra l’era del muto e l’avvento del sonoro.
Una rappresentazione che guarda al cinema europeo e, soprattutto, all’opera del nostro Federico Fellini con l’immortale capolavoro La dolce vita, come ha dichiarato un raggiante Chazelle appena sbarcato a Roma per presentare il film alla stampa: «Con Babylon volevo offrire al pubblico una panoramica su una società specifica, mostrando come quest’ultima lavora, si diverte ma anche come passa il proprio tempo libero tra feste e party ispirati all’immaginario, ad esempio, felliniano. La mia volontà era quella di esaminare un periodo specifico dell’industria hollywoodiana attraverso il prisma del divertimento e del lavoro sul set, mostrando come i due aspetti siano connessi e si susseguano allo stesso tempo, svelando inoltre cosa c’è sotto la superficie dei sogni».
Sogni, desideri, illusioni e delusioni si rincorrono su una giostra vertiginosa al ritmo rapsodico del Jazz, svelando gli intenti di partenza del regista americano che lo hanno portato a maturare, ben quindici anni fa, l’idea in nuce per questa storia incentrata soprattutto sul crudele passaggio dal muto al sonoro, che anticipa molti altri momenti cruciali che il cinema ha dovuto affrontare nel corso della sua lunga storia: il crollo della Golden Age e dello studio system per come era concepito, ma anche l’avvento del colore, del formato cinemascope, del technicolor con il widescreen e della rivoluzionaria tecnologia 3D, tornata di recente alla ribalta grazie al sequel di Avatar diretto da James Cameron, giunto nel bel mezzo della rivoluzione copernicana dettata dalle piattaforme VOD.
La settima arte cambia e, a detta diChazelle, muore e rinasce in un ciclo ininterrotto: «Molti film usciti durante dei periodi cruciali contenevano l’ansia, la paura e il timore che il cinema morisse, sostituito magari da altro – come la tv – o da nuovi ritrovati tecnici. Forse a morire è stato il sistema degli studios, sostituito da qualcosa di diverso e coinvolto in un continuo ciclo di rinascite. Ormai è così, è un ciclo che va avanti da secoli in una costante evoluzione affiancata ad un discorso tecnico e artistico: gli strumenti e le innovazioni usate dal cinema servono per creare delle esperienze diverse – delle alternative, soprattutto alla dimensione più casalinga – per coinvolgere gli spettatori; sta tutto nelle mani dell’artista, nella sua responsabilità di usarli non come dei semplici trucchetti ma come delle vere e proprie novità, destinate a resistere superando la prova del tempo. Come un pittore che ha tanti colori da utilizzare, così un cineasta deve espandere le possibilità dando un valore estetico al proprio lavoro, come fa ad esempio James Cameron, che ci ricorda quanto il cinema non sia qualcosa di vecchio, soprattutto se paragonato alle altre arti: è giovane e può ancora contare su innovazioni non sfruttate».

Rivendicare la propria libertà creativa
Nonostante i tanti premi ricevuti, quest’ultimi non hanno cambiato l’esistenza di Damien Chazelle o il suo modo di concepire l’arte: magari hanno cambiato la percezione degli studios nei suoi confronti, ma non il modo in cui ha sempre percepito la settima arte e, in particolare, il mondo dorato di Hollywood, ben celato sotto una patina che ha, fin troppo spesso, ricoperto il ruolo ideale di un tappeto sotto il quale nascondere tutto ciò che non ha mai voluto mostrare al pubblico.
«Un tempo il cinema non era così rispettato e prestigioso come oggi», ha ammesso il regista. «Era un’industria che veniva vista come criminale, bassa, volgare e addirittura pornografica. E tutto questo era insito nel DNA degli stessi film, che ostentavano quella volgarità, anzi, quello sporco. Non trovo un termine migliore per sottolineare certi aspetti che vengono rivendicati anche nel titolo stesso del mio film, Babylon, ad indicare quell’idea di qualcosa che nasceva dalle volgarità, dal peccato e dal vizio e veniva classificata come una vera e propria babilonia. A quell’epoca, poi, ancora non c’erano dei luoghi del peccato come Las Vegas, ecco quindi che quel sobborgo di Los Angeles assumeva i contorni biblici di una scandalosa Sodoma e Gomorra».
«Hollywood è letteralmente nata come un’industria nuova costruita da immigrati, criminali, reietti, persone allontanate e rifiutate che hanno tirato su, dal nulla, questa città dei sogni iniziando a vedere all’improvviso un flusso di denaro inimmaginabile: ed ecco quindi che delle persone folli finiscono per fare delle follie, tra cui edificare – come dei veri e propri pionieri del West – una città nel bel mezzo del nulla», ha aggiunto. «Ho dovuto ammorbidire la realtà, quello che vedete nel film è abbastanza “edulcorato” ma ho scelto di non correggere niente: sapevo che Babylon sarebbe stato accolto tra le critiche, perché sono partito con l’intenzione di accarezzare contropelo le persone fino a farle reagire negativamente. Volevo realizzare un film che fosse controcorrente, e se la Paramount mi avesse chiesto di annacquare le scene narrate o di filtrarle non lo avrei mai fatto. Molti film recenti hanno celebrato la Hollywood dei tempi d’oro mostrandone però solo la patina, la facciata, senza scavare fino in fondo, andando oltre la semplice superficie».
In un’epoca come la nostra, pervasa ancora da un conformismo di stampo puritano, è necessario opporsi e reagire rivendicando una libertà creativa che, troppo spesso, è stata oppressa e repressa nel corso della storia; e da quandoChazelle ha iniziato a scrivere la sceneggiatura di Babylon, l’industria di Hollywood non è cambiata in meglio. «Sarebbe importante e necessario recuperare quella libertà perduta che si respira sui set dei primissimi film muti, come si evince anche dalla loro rappresentazione resa nel film, ricreando delle nuove regole per un’esplosione delle possibilità artistiche, prima che la fiamma della settima arte possa affievolirsi fino a trasformarsi in qualcos’altro, come già accaduto in passato», ha sottolineato il cineasta.

Risvegliare gli animi, anche al costo di divederli
Damien Chazelle è ben consapevole delle reazioni che provocherà il film; la sua speranza è quella che possa trovare il proprio pubblico pronto ad accoglierlo, risvegliando gli animi – anche a costo di dividerli – ma provocando comunque delle reazioni e dei dibattiti, senza scivolare in maniera silenziosa.
«Volevo fare rumore», ha affermato il regista, «e spero che Babylon possa animare un’accesa discussione anche perché una volta concluso, un film non appartiene più al regista ma diventa subito di proprietà del pubblico, di chi lo guarda e al quale spetta un giudizio complessivo. Un po’ come un bambino, un prodotto audiovisivo una volta uscito nelle sale lascia la casa paterna, inseguendo la propria via dell’indipendenza: a quel punto, è un po’ difficile controllarlo».
In ultima battuta, Chazelle ha ripercorso brevemente l’avventuroso viaggio creativo dietro Babylon, congedando la stampa con una serie di riflessioni legate al significato di alcune scelte compiute per il film: «Era nella mia testa fin dal principio l’idea di realizzare un film che si sarebbe poi trasformato in qualcosa di diverso in termini di genere, tono e stile. Babylon doveva riflettere quella società e doveva essere quindi pronto a passare dalla commedia alla tragedia spezzandosi a metà: c’è una prima parte esuberante e con un’energia altissima, pronta poi a lasciare spazio ad una seconda più incline alla tragedia. Ma quest’ultima non era sufficiente, così ho deciso di virare verso qualcosa di più cruento, che sforasse anche nell’horror e nel gore, mostrando le due facce della stessa medaglia; l’apice del divertimento, tra party, feste e vita da set, contrapposto alla tragedia e alla caduta inesorabile. Si tratta di un’inesorabile contraddizione tra l’ascesa verso le stelle, fissando il cielo, e una caduta rovinosa fino all’inferno, esattamente come in Dante, dall’alto fin negli abissi».
«E ogni personaggio vive in modo diverso questo viaggio: in ognuno ho cercato di infondere qualcosa di me», conclude il regista. «Anche quando non c’era un rapporto diretto, ho cercato di instillare – appunto, in modo indiretto – degli aspetti che mi appartengono, in modo tale da poter esprimere la mia essenza e la mia esperienza attraverso di loro. E poi, quando hai la fortuna di lavorare con attori come Margot Robbie… Margot è straordinaria: ha una particolare forza della natura, un’energia e una fame creativa incredibili unite ad una ferrea disciplina; è disposta a fare di tutto sul set, passando dalla sceneggiatura all’improvvisazione. Per lei l’importante è ritrovarsi in un ambiente tutelato del quale fidarsi, per poi lasciarsi andare paragonando l’atto stesso della recitazione ad un animale specifico: ogni volta che si abbandona ad un personaggio, è come se in lei abitasse una specifica bestia selvatica».
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