Walter Hill è un regista di culto, che nella cornice di Venezia 79 ha presentato la sua nuova fatica: stiamo parlando del western Dead for a Dollar, con protagonisti Christoph Waltz, Willem Dafoe, Rachel Brosnahan e Benjamin Bratt.
Tutti presenti alla Mostra per presentare il film Fuori Concorso, in occasione del prestigioso premio “Cartier Glory to the Filmmaker” che è stato consegnato al rivoluzionario cineasta, autore – nel corso della sua longeva carriera – di opere immortali come I guerrieri della notte, I guerrieri della palude silenziosa, 48 ore, Strade di fuoco e Johnny il bello. Nell’ultimo film, Hill torna a confrontarsi con un genere quasi onnipresente nel suo cinema (anche solo attraverso atmosfere, citazioni o rimandi): il western. Un modo per ripercorrere, con sguardo personale, una porzione di Storia confrontandosi con gli archetipi di un genere.
«Mi piace molto il western» ammette il regista. «Mi piace molto quel periodo, soprattutto puntare tutto sulla ricostruzione dettagliata. Forse questa mia passione nasce da un senso di nostalgia nei confronti di un periodo della storia americana che, in fin dei conti, tutti noi condividiamo. C’è questa idea mitica, poetica sul western che fa parte della cultura di tutti i paesi e tutti i paesi capiscono questa cultura. E poi i film di questo genere sono divertenti da girare, tra l’altro!»
Ma girare al giorno d’oggi, con un budget limitato, un western complesso che si ispira alla mitologia, sospeso tra le suggestioni dell’Iliade e dell’Odissea e con la capacità di fornire un nuovo punto di vista su un genere “storico”, non è facile. Soprattutto perché Hill cercava di mostrare una nuova posizione della donna nella società grazie al personaggio interpretato dalla Brosnahan, che si muove comunque tra le caratteristiche tipiche dei canoni del genere che danno valore a quest’ultimo, pur differenziandolo da uno dei tipici prodotti degli anni ’50 o, addirittura, ’30.
Tra le numerose difficoltà incontrate da Walter Hill, dal cast e dalla crew sul set, molte erano proprio di natura organizzativa, come ha continuato a raccontare il regista alla stampa di Venezia 79: «La nostra è stata una piccola produzione: consapevole di questo, il mio primo commento è stato… facciamolo in grande! Attraverso un paio di trucchi utili e di accorgimenti tecnici, abbiamo trasformato Santa Fe nel Messico. Pianificando le riprese, abbiamo girato tutto molto rapidamente, in soli 25 giorni, pur di superare dei problemi che avevamo riscontrato legati al Covid, e poi altri legati alle condizioni atmosferiche… forse per questi motivi abbiamo impiegato qualche giorno in più. Sono stato fortunato ad avere, sul set, degli attori sempre presenti e volenterosi. Rispetto ai miei film western di un tempo, adesso sono più furbo: giro in base ai soldi che ho a disposizione. In un film sono fondamentali tanto delle idee chiare sulle dimensioni, quanto i movimenti di macchina, i finanziamenti e il tempo a disposizione».
Indubbiamente, quando si parla di film western, non ci si può esimere dal citare uno dei più grandi maestri, ovvero l’italiano Sergio Leone, colui che ha rivoluzionato i codici e il linguaggio del genere americano per eccellenza. E anche Hill si è confrontato con questo gigante della cinematografia, spendendo parole di stima nei suoi confronti:
«I film di Sergio Leone e, di conseguenza, l’accoppiata tra Leone e Morricone, sono oggi un bene mondiale fondamentale per la storia del western e del cinema. Nella Settima Arte ci sono dei registi che raccontano delle storie attraverso il cinema e non si possono assolutamente né copiare né replicare: ne è un esempio Luis Buñuel (celebrato a Venezia 79 anche dall’attrice Catherine Deneuve, N.d.R). I suoi film non possono essere imitati; poi ci sono dei registi che hanno contribuito alla coscienza collettiva del cinema e vengono molto spesso imitati, come nel caso di Kurosawa e John Ford.
Quello che ha donato Sergio Leone è stato ripeso e riutilizzato da tantissimi altri, e in qualche modo tutti noi siamo collegati l’uno con l’altro; non possiamo separare il nostro lavoro attuale dal lavoro fatto prima da qualcun altro. Quando ero un giovane regista, molti anni fa, dicevano che ero influenzato dalle opere di Kurosawa e altri che quest’ultimo fosse suggestionato da Ford che si ispirava a Griffith; e in Griffith c’è l’influenza di Dickens e così via. Non siamo delle isole: siamo qui tutti insieme e raccogliamo la nostra personalità in un quadro ben più ampio».
Uno degli aspetti più interessanti di Dead For a Dollar – e che emerge già dalla presentazione a Venezia 79 – è l’importanza imprescindibile dei personaggi nell’economia della storia: «Nel western è richiesto sempre un confronto finale tra due personaggi», ricorda Hill, «e nel mio film l’elemento che rende il contesto un pochino diverso è la presenza di un’opzione, ma sono tutti troppo legati alle proprie convinzioni e ai propri codici morali. Vorrei che Dead For A Dollar fosse un buon film capace di finire con una lacrima, come succede nei buoni film e perfino nelle commedie; mi piacerebbe che questa fosse una storia positiva, anche se un po’ melanconica e velata da una certa tristezza, soprattutto quando pensiamo ai personaggi che si aggirano sulla scena e sono tutti mortali».
Personaggi incarnati da importanti attori che hanno preso parte al progetto con entusiasmo e dedizione, riassumendo davanti alla stampa di Venezia 79 la propria esperienza sul set:
Christoph Waltz: «Quello che si è creato tra me e Walter non è un processo complicato; è complesso, sì, ma non complicato. Parli con il maestro, il maestro parla con l’apprendista e prima o poi… l’apprendista diventa un pari e via in questo viaggio assieme. Sono convinto al 100% che la disciplina sia il punto di inizio di tutto: la disciplina nel pensiero, nell’azione e poi anche nelle emozioni, soprattutto quando abbiamo una sceneggiatura da rispettare. Questa è considerata una cosa vecchio stile, ma credo che siano le basi del nostro discorso, del dialogo e di quello che facciamo della comunicazione quotidiana l’uno verso l’altro. Perché, quindi, dovrebbe essere diverso sul set? L’idea che il set sia lì per farci sentire bene è sbagliato: per fortuna, Walter non lo crede e quindi è favoloso!»
Willem Dafoe: «Ho lavorato per la prima volta con Walter quasi 40 anni. È stato lui che mi ha consentito di iniziare la mia carriera, facendo così delle cose fantastiche. È un uomo intelligente e diretto, e quando mi ha detto che voleva fare un western – che è un genere che adoro e che ritroviamo spesso nello spazio dei suoi film – ho detto subito di sì; 40 anni dopo, siamo sempre gli stessi e ci divertiamo nello stesso modo».
Rachel Brosnahan: «Quando Walter mi ha proposto il ruolo, desiderava superare alcuni confini tipici del western, rispettando da una parte la storia del genere e, dall’altra, espandendo in qualche modo alcuni dettami fondamentali. Per quanto riguarda il mio personaggio, mi piace il fatto che venga mostrato vulnerabile: non sempre lo si è per scelta, ed è qualcosa di mai esplorato, prima, in questo spazio. Walter è un regista molto generoso che richiede tanto, ma lo fa in modo silenzioso, gentile e rispettoso. Rispetta tutte le persone coinvolte nel film, inclusa la crew».
Benjamin Bratt: «Walter è una leggenda; è stato bello ogni momento trascorso con lui, avrei solo voluto trascorrere più tempo sul set. Ognuno di noi fa del proprio meglio, però si lotta sempre contro il tempo e il denaro: il nostro, poi, è un piccolo film indipendente con il quale speriamo comunque di intrattenere il pubblico. Da piccolo sono cresciuto come un grande fan del western e del lavoro di Walter; ciò che ho amato, leggendo la sceneggiatura, è il fatto che consente ad ogni personaggio di essere se stesso senza nessun giudizio morale».
Dead for a Dollar arriverà prossimamente nelle sale italiane.