Copenhagen Cowboy è il titolo dell’attesa serie – targata Netflix – che riporta il regista danese Nicolas Winding Refn dietro la macchina da presa, anni dopo la sua ultima fatica seriale Too Old to Die Young.
Con una calorosa accoglienza nel Fuori Concorso di Venezia 79, il regista ha raccontato – insieme alla protagonista Angela Bundalovic, all’attrice Lola Corfixen e alla collaboratrice Liv Corfixen – la genesi di quest’idea atipica, che si colloca perfettamente nel solco della sua cinematografia pur rinnovandola, creando un ponte con il futuro. “Con questo lavoro torno al passato per plasmare il futuro”, aveva dichiarato lo stesso Refn di recente, confermando alla stampa presente alla Mostra di aver rispettato le aspettative e le sue stesse dichiarazioni attraverso questo neo-noir, neo western a neon che si muove nell’oscuro sottobosco del crimine di Copenaghen.
«Ho cercato sempre di rispettare le convenzioni dei generi, cercando al contempo di distruggere, costantemente, questi canoni» è l’esordio del regista. «Mi piace fare le cose in base al mio umore al mattino: talvolta il risultato finale sarà un horror, che magari potrà diventare fantascienza e poi forse assumerà i toni domestici perché c’è un’influenza dei bambini, fino a virare verso la suspense nel pomeriggio… insomma, mi piace molto creare secondo questa sorta di flusso spontaneo di reazioni che mi assalgono. In un certo modo, si può dire che i social media – che sono la prossima versione del cinema, secondo me – si basano proprio sul fatto che non c’è più un unico elemento ma tanti elementi che si combinano sul piano creativo, e tutto ciò è molto liberatorio.
È bello assistere ad un ritorno delle serie tv di genere: forse questo sta accadendo perché il pubblico più giovane adora, appunto, i generi, che in realtà stanno salvando i mass media come cinema e tv. Ritengo che siano uno strumento fantastico con cui lavorare; io li ho maneggiati da sempre, fin dall’inizio della mia carriera da cineasta, perché sono il riflesso di noi come società. I generi sono lo specchio dei nostri desideri e delle nostre fantasie, di tutto quello che è davvero interessante perché ci mostrano la realtà e cosa si nasconde dietro di essa, ricollegandosi ai comportamenti umani».
Nicolas Winding Refn dimostra di avere le idee ben chiare sulla direzione da seguire con il proprio lavoro: un ritorno al passato, appunto, grazie anche alla nascita di un nuovo personaggio come Miu che sembra essere una sintesi di molti degli anti-eroi che hanno popolato il suo cinema, incarnati spesso da attori come Mads Mikkelsen e Ryan Gosling nelle opere Valhalla Rising, Drive o Solo Dio perdona.
Anche se questa volta la giovane, interpretata dall’attrice ed ex-ballerina Angela Bundalovic, deve il suo nome al mondo della… moda, che già aveva sedotto il regista danese con l’ipnotico The Neon Demon. Miu, infatti, è un omaggio (indiretto) alla linea Miu Miu di Prada, con la quale Refn sta al momento collaborando su un progetto top-secret che legherà moda e cinema, e che lo ha spinto a trasferirsi in Italia per poterci lavorare meglio.
«Avevo già in mente una precisa idea del personaggio» commenta Refn a tal proposito. «In passato ho girato film con certe tipologie di personaggi, ma questa volta abbiamo cercato di creare qualcosa di diverso, una sorta di evoluzione della stessa, però completamente diverso. Quindi dovevo puntare su una versione femminile di questi characters e racchiudere molti aspetti in una sorta di supereroina. Miu è quasi una supereroina perché si è formata per strada, ha un’origine specifica e “aliena” e non ha nessuna definizione specifica appiccicata addosso, tant’è che parla il meno possibile ed esprimere la sua forza e l’energia creativa attraverso il movimento. Quando poi, durante la lunga fase casting a Copenaghen, io e le altre sceneggiatrici abbiamo incontrato Angela, beh… l’abbiamo trovata perfetta, perché in lei vedevamo proprio Miu.
Non credo che sia possibile parlare di anti-eroi in un’accezione negativa nei miei film: per me tutto è positivo, io stesso sono una persona positiva anche nel mio atteggiamento e verso ciò che ci circonda. Mi piace molto il dramma: è sempre più interessante e intelligente, perfino quando è a tinte fosche e questo si vede bene, ad esempio, in Shakespeare».
Già dal titolo, Copenaghen Cowboy spiazza il pubblico abituale di Refn per via del riferimento molto forte alla Danimarca e ad una dimensione più intima, lontana dagli Stati Uniti o da altri luoghi in giro per il mondo che spesso hanno fatto da sfondo alle opere più recenti del regista; ed è proprio quest’ultimo a raccontare, a Venezia 79, com’è nata l’idea di tornare a girare “in casa”, optando per un titolo apparentemente eccentrico e per una dimensione familiare quasi inedita:
«Per quanto riguarda il titolo, Copenaghen Cowboy, sapevo già che avrei girato in Danimarca soprattutto a causa della pandemia. Durante quel lungo periodo molti dei progetti che avevo in ballo erano stati sospesi perché localizzati negli Stati Uniti. Quindi ho pensato di restare “a casa”, mantenendo perfino nel titolo quel riferimento geografico diverso dal solito, perché Copenaghen evoca sempre un altro tipo di immagini nella mente, di certo non quella di un cowboy! Credo che ci sia qualcosa di erotico proprio in questo termine, per cui mi è venuta voglia di unire questi due nomi con una forte collocazione sessuale che sedurrà anche i giovani.
Tornare a lavorare in Danimarca è stato come… come creare di nuovo la banda, facendo risorgere uno scenario che non c’era da tempo – l’ultima volta è successo molto tempo fa – per poi inaugurare un’esperienza fantastica. Lavorare in base al modello scandinavo è piuttosto facile anche perché non siamo mai in tanti sul set, e questo tipo di produzioni più raccolte sono molto piacevoli e permettono di gestire il tempo in modo diverso. Poi, per quanto mi riguarda, quando si lavora nell’industria dell’arte, spesso ci si ritrova a vivere in modi separati con la propria famiglia: ecco, a me invece è sempre piaciuta l’idea di includere la mia famiglia nel lavoro, anche perché sono la mia fonte di ispirazione. Così, per rinsaldare il rapporto simbiotico e quotidiano – ormai di una vita! – che mi lega a mia moglie Liv, l’ho chiamata sul set, insieme a nostra figlia Lola che è una delle attrici di Copenaghen Cowboy».
Attraverso le ultime battute, Nicolas Winding Refn ha congedato Venezia 79 con una riflessione importante legata al concetto di tempo, da sempre molto presente nelle sue opere: nei film e nelle serie del regista danese tende sempre a dilatarsi, “rubando” spazio vitale e ritmo (prezioso) in un mondo, soprattutto dell’entertainment, ormai super-veloce e inarrestabile:
«Avevo già un’idea ben precisa, con Copenaghen Cowboy, del luogo, della tempistica e del suo ritmo. In un mondo che va sempre più veloce, io volevo accentuare la lentezza: ad esempio, mi sono sempre chiesto perché intrattenimento di massa deve essere sempre così veloce. Io non credo che la velocità migliori la qualità, credo onestamente che l’opposto sia molto più interessante. Se il cinema è la maggiore e più importante manifestazione dei mass media, forse la sua criticità sta proprio nel ritmo che è essenziale, anche perché non possiamo tornare, fisicamente, indietro nel tempo; per cui, quando si realizza un’opera audiovisiva, bisogna rispettare questa dimensione temporale, dare tempo quando lo si chiede agli spettatori, realizzando delle opere che scaturiscono dal cuore e che sono il risultato di impegno, passione, concentrazione e dedizione».
Copenhagen Cowboy arriverà prossimamente su Netflix.