Stamattina a RomaFF13 è stata la volta del film d’apertura 7 Sconosciuti a El Royale, insolito noir con sfumature pulp diretto dal regista Drew Goddard e interpretato da un cast stellare composto da Chris Hemsworth, Jeff Bridges, John Hamm, Dakota Johnson, Cynthia Erivo e Cailee Spaeny.
E proprio quest’ultima – giovanissima promessa del cinema hollywoodiano – insieme al regista Goddard hanno presentato il film, parlando della loro esperienza, raccontando aneddoti e collocando la pellicola nella sfera della contemporaneità, sempre pronta a dialogare con la classicità dei modelli di partenza che lo hanno ispirato.
Drew, il vero protagonista di 7 Sconosciuti a El Royale – oltre ai sette protagonisti – è la location, questo decadente hotel situato al confine tra due stati. Che cosa rappresenta questo luogo per te e come hai lavorato per costruire questa dimensione?
Drew Goddard: «Ricostruire dei luoghi che uno non ha mai visto prima è un’impresa, e quando lo stavamo costruendo speravamo vivamente che l’hotel E Royale riflettesse la psicologia dei personaggi; anche perché è innegabile che uno dei leitmotiv è il concetto di dualità, di ambigua doppiezza, considerando che nessuno dei sette protagonisti è davvero quello che dice di essere. Beh, la location doveva riflettere proprio questo».
Cailee, che esperienza è stata per te quella sul set?
Cailee Spaeny: «La cosa bella è che con Drew abbiamo chiarito le cose fin dall’inizio della nostra avventura, collocando tutto per bene e parlando della vita del mio personaggio, Rosie; però è solo quando ti trovi tra il pubblico e assisti alla prima proiezione del film, e hai modo di vedere come quest’ultimo guarda il personaggio prima di chiederti con entusiasmo “ma come hai fatto a lavorarci sopra, a calarti in quei panni!” che capisci l’effetto che ha sortito il tuo lavoro. Diciamo che ho cercato di stupirmi man mano che accadevano le cose».
Drew, com’è stata costruita la sceneggiatura di 7 Sconosciuti a El Royale? Nel film ci sono molte scene riprese da diversi punti di vista, una tecnica che richiama alla memoria film come Rashomon di Kurosawa; ma anche questa ispirazione classica sembra essersi evoluta in uno stile assolutamente nuova e personale. E poi puoi dirci qualcosa in più del tuo sodalizio professionale con Chris Hemsworth?
Drew Goddard: «Per quanto riguarda la prima domanda sulla sceneggiatura, devo ammettere che per me ogni film comincia con l’amore: bisogna amare i propri personaggi, e io li amo molto, come del resto amo l’empatia verso di loro, quel processo che mi porta a scoprire delle cose su di loro work in progress. La struttura di 7 Sconosciuti a El Royale non è poi così complicata in effetti, e mentre scrivevano i sette personaggi pensavo “a chi tocca adesso?” Adoro i film dove non c’è proprio un solo protagonista, ed è stato splendido far interagire tra loro i vari personaggi, vedendo come si muovevano sulla scena.
Per quanto il mio rapporto professionale con Chris, lo conosco da 10 anni e, come attore, ha un talento enorme e un grande potenziale da esprimere; così, quando uno conosce attori del genere, scopre quali sono i suoi lati nascosti e quali tirare fuori con dei personaggi diversi: ed è, in sintesi, quello che ho fatto io con Chris. In 7 Sconosciuti a El Royale ho tirato fuori il suo lato oscuro».
Cailee, cosa c’è di originale nel personaggio di Rosie e cosa, invece, hai pescato da te stessa?
Cailee Spaeney: «Sapevo di dover entrare nella testa di qualcuno, un personaggio che decide cose terribili. Così ho visto vari documentari sulle sette, per esempio: comunità che nascono spesso dalla ricerca di purezza per cercare di cambiare il mondo. Poi comunque Rosie è giovanissima, e nella sua ingenuità finisce per innamorarsi della persona sbagliata».
Drew Goddard presenta a RomaFF13 il suo nuovo film 7 Sconosciuti a El Royale
In 7 Sconosciuti a El Royale ci sono diverse figure femminili che lottano anche per la loro emancipazione: come collochi il film all’interno del movimento #MeToo?
Drew Goddard: «Il film nasce circa cinque anni fa, quando ancora non si parlava di #MeToo come di un movimento. Quelli di oggi sono mali antichi: il maschilismo, il razzismo, la violenza e il sessismo etc. sono radicati nella società, ma è giusto che se ne parli oggi, gettando luce sul fenomeno e iniziando a fare dei grandi passi avanti. I temi affrontati erano importanti negli anni ’60, ma è necessario continuare a parlarne».
Quali difficoltà hai incontrato girando in un luogo solo?
Drew Goddard: «Ammetto che non pensavo fosse così difficile girare in un solo luogo dove, nell’arco delle dodici ore della notte, accade di tutto: e ogni situazione influenza, tocca e investe tutto il resto, ma girare in continuità – e quindi in ordine cronologico per gli attori – ha avuto un grande valore per gli attori, perché i vari personaggi subiscono un’evoluzione sottile. Se avessimo girato seguendo un ordine diverso delle scene, non sarebbe stato lo stesso, perché ciò che mi interessa è l’escalation che permette ai personaggi di crescere».
Perché hai scelto di girare in analogico e non in digitale?
Drew Goddard: «Amo molto gli anni ‘60 e la loro estetica, così volevo che il film evocasse quegli anni: ma si tratta tecnicamente più di una questione emotiva che intellettuale. La pellicola ha una resa diversa, i colori, i volti degli attori e altri aspetti compaiono in modo diverso sul grande schermo. È difficile da spiegare, è una questione di memoria emotiva e quando vedo la resa effettiva è diversa da quella digitale; e poi volevo delle inquadrature ampie, larghe, che comprendessero tutti gli attori nella stessa scena, quindi ho scelto l’anamorfico anche per questo motivo, ispirandomi a Sergio Leone in C’era Una Volta il West».
7 Sconosciuti a El Royale evoca in parte la fine del sogno americano, vista pure la presenza di un personaggio che evoca gli orrori di Charles Manson?
Drew Goddard: «Non credo che 7 Sconosciuti a El Royal evochi un incubo: stiamo attraversando tempi oscuri e cupi, ma ci sarà sempre una luce e nel film i concetti di speranza e redenzione sono importanti e ricorrenti. Inoltre nel film si parla anche del concetto d’arte e di amore per l’arte, un aspetto che mi ha sempre coinvolto da vicino.
Parlando di sette e culti, invece, non si può non pensare della figura di Charles Manson: oggi in giro c’è molta “mascolinità tossica”, ed ecco perché riemerge in modo così prepotente nella nostra società; si sfruttano troppo i più deboli».
Nella Holywood di oggi c’è la tendenza ad adattare, a girare remake e reboot per rilanciare delle saghe: com’è stato quindi portare un soggetto originale?
Drew Goddard: «Sì, gli studios hollywoodiani sono ormai più orientati verso i primi, ma mi chiedo: perché non realizzare prodotti originali? Alla fine si cerca semplicemente una buona storia, mentre si va a caccia della ripetitività, ma nel mio piccolo continuo a scrivere ciò che vorrei vedere perché se i miei film e le mie storie piacciono a me, allora possono piacere anche agli altri
In questo mi ha aiutato molto l’esperienza televisiva: lavorare con professionisti come Joss Whedon e J. J. Abrams mi ha insegnato molto, perché hanno sempre avuto un approccio cinematografico. Imponevano ai loro autori di lavorare all’altezza di registi e attori di talento, mantenendo sempre uno standard alto e considerando ogni episodio alla stregua di un piccolo film di 60’ ».
Il film ricorda da vicino lo stile di Quentin Tarantino: è forse un omaggio indiretto?
Drew Goddard: «No, confesso d’aver scritto il film senza pensare a Tarantino ma pensando semplicemente a me; ma in quanto persona cresciuta negli anni ’90, non posso sfuggire al talento rivoluzionare e al genio di Quentin o a quello dei fratelli Coen: loro non hanno mai paura di niente, sono coraggiosi e si muovono tra i generi. Non hanno mai paura di provare e sperimentare sul set, e poi realizzano dei prodotti sempre diversi tra loro. Sì, confesso che forse il loro stile mi ha influenzato, visto che ho fatto vedere all’intera crew Burton Fink prima d’iniziare le represe».