Ospite di RomaFF12, Chuck Palahniuk, prima ancora che essere un semplice scrittore, è un uomo carismatico e, proprio come tutti gli autori americani, ha un fortissimo ascendente sul pubblico. I suoi romanzi, da Chocke a Fight Club, sono stati adattati con successo per il grande schermo trasformandosi quasi subito in due cult.
Abbiamo ascoltato le idee di Palahniuk a proposito del suo personalissimo rapporto tra cinema e letteratura in occasione della conferenza stampa durante la 12^ edizione della Festa del Cinema di Roma.
Fight club è diventato non solo un film di successo ma, con il tempo, ha anche assunto lo status di cult. Questo inaspettato successo come ha condizionato la tua carriera?
«Fight Club è un lavoro di successo solo se ne parliamo adesso, collocandolo in una prospettiva moderna letta con il senno di poi. Quando uscì il libro vendette solo 5 milioni di copie; allo stesso tempo quando uscì il film omonimo diretto da David Fincher, non se la cavò affatto bene al botteghino, anzi stava facendo perdere soldi e posti di lavoro. Pensate che ha avuto alcune delle recensioni peggiori mai ricevute. Solo due-tre anni dopo, quando la Fox ha investito economicamente rilasciando una bella edizione in dvd il film divenne un successo e si trasformò ben presto in un cult. Col senno di poi fu un successo vero, ma guadagnato col tempo.»
C’è anche una versione a fumetto, composta da circa una decina di albi, creata e pensata appositamente come un sequel ideale del tuo romanzo o comunque del film di Fincher.
«Il libro ha avuto un enorme seguito come del resto anche il film; cosi mi sono detto che, se mai fosse stato realizzato un sequel di entrambi, si sarebbe dovuti confrontare o meglio scontrare con l’originale. Realizzai quindi che serviva un medium diverso, come la graphic novel per tentare questa sfida. Ho lavorato non da solo ma con altre persone che mi hanno accompagnato, e tutti insieme ci siamo resi conto che sia il film che il libro mostrano tante cose giuste e aspetti interessanti, ma solo la graphic novel può permettersi il lusso di essere comica ma non didascalica: in tal modo ho potuto esplorare tanti elementi nuovi.»
Quando scrive immagina già una versione cinematografica? Ma soprattutto, cosa ne pensa degli adattamenti che di solito deludono gli spettatori, soprattutto gli appassionati di un romanzo?
«Quando ho iniziato a scrivere confesso di averlo fatto solo pensando ai libri, mai ai film: non volevo raccontare cose, aspetti, realtà che si adattassero troppo bene per il grande schermo. Nella lettura chi legge è formato, ha un proprio bagaglio di partenza, si impegna e sa cosa sta leggendo. Volevo affrontare temi violenti, scomodi difficili da trasportare sul grande schermo dove contano invece semplicemente i numeri e le persone che vanno in sala. In Fight Club sia il libro che il film sono entrambi dei lavori validi però, anche se tanti apprezzano e amano più uno rispetto all’altro.»
RomaFF12: Chuck Palahniuk e il rapporto fra cinema e letteratura
Il ritratto degli USA fornito in Fight Club è ancora attinte al ritratto dell’America attuale? E quali emozioni vuole suscitare quando scrive?
«La prima domanda è davvero complessa e difficile da decifrare che forse non riuscirò nemmeno a rispondere fino in fondo; c’è un nome specifico, una nomenclatura di cui non ricordo al momento il nome, che dice che solo grazie a Fight Club e Matrix si è potuta definire finalmente la nostra realtà comune, creando un linguaggio specifico pur di metterla in dubbio e anche perché solo oggi vediamo determinati movimenti che protestano contro le contraddizioni di questa società, movimenti nati tutti in seno a questi film, che hanno permesso di concettualizzarli…
…C’è un mio racconto breve molto recente che porterò come esempio: le persone, quando vengono ad assistere a una mia lettura, svengono e scappano; qualcuno la prende infatti sul personale. Il mio compito, da scrittore, è mostrare quanto possa essere potente un racconto…
…La scrittrice horror Shirley Jackson scrisse un famoso racconto (da cui poi fu tratto il film horror The Haunting); in un secondo tempo divenne famosa negli anno ’50 quando pubblicò il racconto breve The Lottery pubblicato sulle pagine del The Newyorker e molti rimasero talmente sconvolti da revocare il loro abbonamento…
…18 persone svennero durante una mia lettura a Brighton, nel Regno Unito. Ho letto un racconto di recente, Guts, in sinagoga e ne sono svenute altre 5. Il mio intento, quello che perseguo, è raccontare solo le storie senza fronzoli proprio come si faceva un tempo nella tradizione orale, senza recitazione, musica di sottofondo etc., considerando anche che in media i miei racconti e romanzi che scrivo sono prettamente destinati agli adulti.»
Com’è stato collaborare in tempi non sospetti con David Fincher e chi potrebbe dirigere il suo ultimo romanzo acquistato per il cinema, Invisible Monsters ?
«Per Fincher, non so se tecnicamente si possa lavorare con lui… ci puoi andare d’accordo e basta, perché è un professionista che sa quello che vuole e suggerire qualcosa rischia di peggiorare la situazione sul set. Ad esempio Courtney Love, all’epoca compagna di Edward Norton intorno al 1999, voleva essere a tutti i costi Marla; fu Fincher che suggerì Helena Bonham Carter dicendo: “voglio che somigli a Judy Garland poco prima di morire”. Sapeva quello che voleva e l’ha ottenuto lottando senza esclusione di colpi. Io ho semplicemente seguito e rispettato il suo volere. Edward Norton voleva che il personaggio che interpretava nel film, ad esempio, fosse simpatico per entrare più in empatia con il pubblico, mentre Fincher voleva l’esatto contrario. Io venivo chiamato in causa per suffragare la tesi del regista, ovviamente. In effetti il personaggio di Ed è umanamente orribile, e lui all’epoca non voleva proprio interpretare quella parte…
…Per quanto riguarda Invisible Monsters invece, ci sono stati nuovi sviluppi e adesso i creatori di American Horror Story ne hanno acquistato i diritti, con la volontà di trasformarlo presto in un film da distribuire sulla loro rete tv.»
«Tutti i miei libri hanno elemento fisici al loro interno: questo perché voglio interagire su un piano pratico con i lettori stessi.»
Chuck Palahniuk, lei ha spesso parlato di violenza nei suoi romanzi: quale definizione ne darebbe nello specifico e, se c’è una comunicazione sotto, di che tipo è?
«Innanzitutto per me la violenza è consensuale: due persone decidono insieme di avere scambi violenti. Per molti della mia generazione si è sempre cercato di evitare il conflitto e ogni forma di violenza perché innanzitutto, ormai oggi, capire qual è il nostro estremo punto di sopravvivenza agli agenti esterni è davvero un gioco. Tutti i miei libri hanno elemento fisici al loro interno: questo perché voglio interagire su un piano pratico con i lettori stessi. Se trova empatia nei confronti dello scrittore il lettore verrà condotto in un viaggio fisico ed emotivo talmente estenuante per provare l’essenza della violenza stessa.»
Che impatto avrebbe avuto sulla tua carriera crescere in un altro luogo, diverso da dove sei nato?
«Passando in rassegna la mia storia, posso dire che intorno ai 27 anni ho davvero lavorato in fabbrica a Portland perché non c’erano in giro grandissime occasioni lavorative. Poi ho fatto un corso motivazionale e, solo lì, ho capito che dovevo iniziare subito con la scrittura: il mio piano di iniziare a scrivere a 50 anni non avrebbe funzionato, così ho iniziato a frequentare un corso di scrittura. C’erano tante persone lì, ed erano quasi tutti dottori che scrivevano gialli e io, al contrario, altre cose – che definirei – orribili. Dopo aver letto una mia scena, che avevo scritto, a base di bambini, sesso e bambole gonfiabili, mi invitarono ad andarmene perché non ero più gradito. Ma c’era un uomo, un intellettuale di nome Tom Spanbauer che aveva collaborato con Gordon Lish nella creazione del mito di Raymond Carver, definendone le caratteristiche stilistiche. Cosi ho seguito il suo corso e anche lui mi ha trasformato in uno scrittore. Pochi corsi ti insegnano a migliorare come scrivere.»