Indubbiamente Woody Allen è il più europeo dei registi americani: grazie ad una sensibilità malinconica, retaggio della lunga ombra costante del passato, e all’abilità di realizzare film d’autore dal taglio indipendente, Allen è riuscito a creare nel corso della propria lunga carriera un microcosmo specifico popolato da figure di riferimento, situazioni tipo, eventi reiterati e concetti cardine intorni ai quali plasmare la realtà.
Ed è impossibile scindere da questo “Allen-verso” certi luoghi chiave per la poetica dell’autore: spazi della mente e del cuore – prima ancora che fisici – capaci di strutturare una geometria specifica, una sorta di mappa in grado di guidare gli spettatori nei dedalici labirinti dei ricordi di Allen e della sua filmografia.
Il nome Woody Allen fa inconfondibilmente rima con New York City: la Grande Mela, la Goldene Medine, la Gotham, ma anche il mostruoso Moloch di cui parlava Allen Ginsberg. Un’inquietante metropoli frutto delle prodezze della moderna ingegneria d’inizio secolo, la culla oltre oceano dello stile Art Deco, la speranza per tutti coloro che, scappando dalle proprie terre natie, si sono avventurati in cerca di una vita migliore, di un lavoro, di una speranza o semplicemente della felicità.
New York City, culla di artisti, madrina di cantanti, poeti, scrittori, pittori, musicisti, registi; New York dalle molte anime che ancora oggi viene cantata e celebrata, nella speranza di immortalare ogni volta uno dei molteplici frammenti della sua inafferrabile anima.
Allen è newyorkese di nascita: è il 1 dicembre 1935 quando vede la luce a Brooklyn Allan Stewart Königsberg, che crescendo diventerà un ragazzino ebreo perdutamente innamorato della settima arte, dalla battuta sempre pronta e restio a frequentare la scuola. Il clima culturale che respira nell’infanzia e nell’adolescenza lo influenzano profondamente, permeandone la visione del cinema e della vita stessa; anche i luoghi sono importanti per la costruzione della sua personalissima mappa.
La Brooklyn popolare dei suoi ricordi diventa protagonista infatti di Radio Days (1987), un film la cui struttura è basata proprio su una collezione di ricordi, memorie vere che affondano le radici nella famiglia di Woody Allen, nelle persone che frequentava e che ruotavano intorno al suo microcosmo. Brooklyn è la New York “al di là del ponte”, separata dalla vicina Manhattan non solo a livello fisico ma soprattutto culturale.
Oggi la sua fisionomia è cambiata, è un quartiere residenziale tranquillo dalle molte facce e quasi tutta la sua superficie è stata esplorata, ma perdurano ancora zone “sconosciute” ai visitatori occasionali dove le tradizionali street ed avenue saltano, perdendo il conto e acquistando una specifica nomenclatura rubata alle lettere dell’alfabeto. Vicoli del Queens – un’incursione nella Manhattan più popolare – e passeggiate sulla spiaggia di Coney Island, prima di approdare agli alberghi scintillanti e alle mille luci della 34esima Strada e della Broadway.
Da Brooklyn a Manhattan quindi: Woody Allen ha focalizzato l’attenzione del proprio occhio critico sui problemi della borghesia, sulle contraddizioni delle classi più agiate, sui drammi psicanalitici di coloro che vivono a Central Park West. Manhattan (1979), uno dei suoi film più famosi e iconografici, rappresenta una duplice celebrazione: da una parte l’omaggio alla New York della sua mente e del cuore, quella in bianco e nero dei ricordi da bambino del regista; dall’altra fornisce il ritratto intellettual-nevrotico non solo di un’intera generazione, ma di una classe sociale.
La borghesia complessa e complessata, fragile e afflitta dalle proprie paure che procedono in ordine esponenziale dalle più banali alle più metafisiche, è l’oggetto dell’indagine di Allen; quel mondo al quale anche lui appartiene, contaminato da un background culturale yiddish che solo nella multietnica New York City diventa un crogiuolo possibile e inscindibile.
Le fantasie di Woody Allen riescono a prendere corpo grazie ai direttori della fotografia che lo affiancano sui set: Gordon Willis, in Manhattan, è riuscito a creare un immaginario in uno sfolgorante Cinemascope bianco e nero della Grande Mela, consegnandola all’immortalità cinefila come il suo ponte di Brooklyn illuminato da un’unica fila di luci accese. Anche Vittorio Storaro è riuscito a creare un cesellato capolavoro nell’ultimo La Ruota delle Meraviglie: il celebre direttore della fotografia italiano, alla seconda collaborazione con Allen, ricostruisce un ritratto della Coney Island degli anni ’50 baciata dalla luce del policromatismo, mozzafiato come le attese in un quadro di Edward Hopper.
La celebre spiaggia newyorkese, il luogo di ritrovo delle famiglie alla ricerca di una giornata di svago abbastanza lontano dal caos della città, sotto la lente deformata del regista si trasforma piuttosto nella “Coney Island della mente” della quale parlava Henry Miller: i resti malinconici di una decomposta fiera delle meraviglie, dove una remota ruota panoramica osserva i destini tristi – ed incrociati – dei suoi abitanti attraverso il suo grande occhio.
Parafrasare Fitzgerald e il celebre Il Grande Gatsby non ci conduce fuori da Manhattan, anzi; è impossibile non citare il capolavoro di Woody Allen che, più di tutti, ha forse legato in modo indissolubile l’immagine del regista/autore alla propria città: Io e Annie, commedia del 1977, è stata una vera pietra miliare per il genere rom-com ma soprattutto per la consapevolezza cinematografica legata alle commedie.
La storia di Alvy e Annie, tra nevrosi e non detti, piccoli slanci d’amore e partite di squash e tennis, non può esistere altrove se non nella “metropoli dove tutto è possibile”, là dove “se puoi fare qualcosa, allora puoi farla ovunque”; solo a Manhattan possiamo leggere i sottotitoli dei veri pensieri partoriti dalle menti di due persone che stanno flirtando tra loro.
Ed è il confronto impietoso tra la caotica malinconia metropolitana di New York e il caldo sole della California a sconfiggere Alvy, che alla fine decide di lasciare la sua auto alla deriva ammettendo la propria caduta di fronte al fascino frizzante e libertino della mecca del cinema che ha sedotto, con il canto delle proprie sirene del successo, la “sua” Annie.
Woody Allen e le città: una mappa ragionata dei luoghi dei suoi film
Los Angeles, d’altro canto, è la metropoli-nemesi di Woody Allen: la città del cinema, quella dove splende sempre il sole e tutto è vuoto, finto ed eccessivo agli occhi di un cabarettista newyorkese passato dietro la macchina da presa. Nella realtà, la città dei sogni ha sancito la fine dell’inossidabile legame tra Woody e Diane Keton, che proprio sul set de Il Padrino conobbe Al Pacino del quale si innamorò. Elementi, questi, che hanno influenzato la scrittura di Io e Annie segnandone l’esito.
Allen si è sempre tenuto a distanza di sicurezza dalla mecca del cinema, a parte una recente incursione in Cafè Society (2016): ancora una volta, a fare da colonna portante per la drammaturgia del racconto è l’eterna contrapposizione tra le due “capitali” della West e della East Coast, che Vittorio Storaro – ancora una volta direttore della fotografia – immortala attraverso due luci particolari, completamente diverse tra loro; Los Angeles, ancora una volta, sembra frutto di un sogno lucido, effimera come i sogni che riesce a creare, calda come il sole che la illumina.
Woody Allen ha un’anima europea perché i suoi film hanno respirato quella sensibilità: la lezione cinematografica di Antonioni, Bergman e Fellini influenza il suo stile reso inconfondibile dalla personalissima visione del mondo che lo accompagna fin dai tempi della tv e del cabaret.
Per tale ragione, dopo una serie di insuccessi al botteghino collezionati negli anni ’90 – in seguito allo scandalo sulle presunte molestie sessuali che lo aveva coinvolto e la relazione con la figliastra Soon-Yi uscita allo scoperto – Allen vede assottigliarsi sempre di più il mercato americano, con un unico punto fermo a sostenerlo: lo zoccolo duro dei fan europei.
E nel 2005, quando realizza che non può girare il suo nuovo film nell’amata New York per problemi economici, è l’Inghilterra a lanciare un’àncora di salvataggio con dei fondi concessi dalla BBC. Così nasce forse il capolavoro più recente della filmografia alleniana, il thriller Match Point: un Delitto e Castigo sotto il cielo plumbeo di Londra, il film sonda le nefandezze delle quali può macchiarsi l’animo umano, quando si abbandona all’oscurità scrutando nel suo cieco occhio nero.
Con una troupe britannica e attori del luogo – tranne la protagonista Scarlett Johansson, subentrata a Kate Winslet una settimana prima dell’inizio delle riprese – il film è un successo e segna il debutto ufficiale del regista sul suolo del vecchio continente.
Un po’ per contratto un po’ per desiderio, il regista scelse di immortalare sullo sfondo della torbida vicenda alcuni dei luoghi più simbolici della città, come il Tate Modern, il 30 St Mary Axe di Norman Foster, l’edificio dei Lloyd’s progettato da Richard Rogers, la Royal Opera House, il Palazzo di Westminster e il Ponte dei Frati Neri, inaugurando in tal modo una “tradizione” che si trasformerà, ben presto, in una cifra stilistica dei suoi film successivi.
Le ombre e le nebbie di Londra, le sue rigide gerarchie sociali e quel retaggio figlio delle comedy of manners hanno ispirato Woody Allen diverse volte nel corso degli anni 2000, oscillando tra il dramma a tinte noir – appunto, Match Point e Sogni e Delitti – e la commedia: indimenticabile è l’esito di Scoop (2006), che segna il ritorno del regista anche davanti la macchina da presa ma soprattutto il tentativo di unire i ritmi indiavolati e le suggestioni tipiche della commedia ungherese alla classica struttura della suddetta comedy of manners: la critica sociale passa attraverso la risata e gli americani si approcciano con candida meraviglia naif alle tradizioni tipiche dell’aristocrazia britannica.
Si parlava, nella filmografia di Woody Allen, di alcune piccole “tradizioni” che sono diventate una consuetudine, caratterizzandone lo stile: una di queste è – oltre ai titoli di testa e coda in bianco e nero e l’utilizzo della musica jazz – la panoramica della città set del film, le famose “cartoline”, istantanee metropolitane che il regista fa scorrere nei primi minuti del lungometraggio, accompagnate dal sottofondo musicale giusto.
Come accade in To Rome With Love: primo film – e per ora unico – girato a Roma, il regista si lascia suggestionare dai film a episodi italiani degli anni ’60, ricorda Risi e si abbandona alla commedia popolata da volti e situazioni sullo sfondo della Città Eterna immortalata attraverso panoramiche e totali da cartolina. E non è quindi una scelta casuale che la voce narrante del film sia uno dei simboli di Roma, ovvero un vigile urbano.
In To Rome With Love la Città Eterna è catturata dallo sguardo del turista americano, legato a un immaginario cinematografico hollywoodiano e lontano dalla realtà che vivono i cittadini capitolini; i colori della tavolozza cromatica usata da Allen sono caldi, virano alle tinte del rosso, dell’amaranto e dell’arancio con pennellate rosa tipiche dei tramonti della capitale, in contrasto con il plumbeo colore dei sampietrini.
La lezione che impartisce Woody ancora una volta è che ogni città ha una propria, specifica, palette di colori: e la prova lo sono le notti blu avvolte dalle luci color seppia di Midnight in Paris (2011). Se nel successivo To Rome With Love la critica ha evidenziato un certo distacco condito da venature qualunquiste nei confronti della rappresentazione che Allen fa degli italiani e della loro capitale, nel precedente film d’ambientazione parigina traspare invece tutto l’amore celato dal regista per la Ville Lumiere.
La Parigi di Woody Allen è sempre stata quella onirica, dove tutto diventa plausibile e possibile: controparte europea della “Mannhatta” newyorkese, solo qui si può danzare lungo la Senna – come già avveniva in Tutti Dicono I Love You – e venire sbalzati indietro nel tempo, proiettati in un’Age d’Or popolata da scrittori, intellettuali e artisti d’ogni sorta.
A parte l’iniziale panoramica tipicamente da cartolina, con le istantanee parigine di angoli più o meno celebri che scorrono sulle note malinconiche del clarinetto di Sidney Bechet, in Midnight in Paris – come suggerisce il titolo – lo stupore, la meraviglia e la magia si palesano nel cuore della notte, quella notte blu di Prussia scintille di mille luci basse e color seppia che ne illuminano a giorno gli interni delle feste e gli esterni delle romantiche passeggiate, riconfermando Parigi come la capitale indiscussa del romanticismo.
Una fotografia calda: raramente Woody Allen ha privilegiato colori freddi in un suo film, forse solo nei drammi più cupi ma raramente nelle commedie. E quando una commedia trova il proprio habitat naturale in Spagna, come può trasformarsi la tavolozza cromatica dell’ennesima città passata in rassegna dall’occhio del regista?
Vicky Cristina Barcelona (2008) porta ancora una volta, nel suo titolo, il nome di una città: ma Barcellona questa volta non è l’unica protagonista, è piuttosto un espediente narrativo per raccontare un atipico triangolo alternato che avrebbe fatto felice Mark Twain. Ancora una volta ci sono due americane in trasferta, che finiscono per essere rapite dal luogo dove si trovano – la calda Spagna, appunto – innamorandosi perdutamente di un caliente pittore dall’ingombrante e folle ex moglie.
La Spagna finisce per cambiare le due amiche, si insinua lentamente sotto la loro pelle con i suoi ritmi, le tradizioni e la lingua; Barcellona è l’innesco di tutto, ma le incalzanti vicende si dipanano anche sotto il sole di Oviedo, la capitale delle Asturie, situata lungo la costa Nord della Spagna.
Tra luoghi turistici e Dolce Vita, passeggiate romantiche e nevrosi metropolitane, amori nati e finiti nell’arco di una notte o di una vacanza, Woody Allen sa come catturare l’anima delle città che ospitano i suoi film, come dimostra ancora una volta la New York City immortalata in La Ruota delle Meraviglie, nelle sale dal 14 dicembre.