Ogni qualvolta vediamo un film del passato rischiamo di imbatterci in un non morto, un attore defunto che per qualche minuto torna a vivere sullo schermo. Di elettricità ne occorre, certo, ma nessuna delle sofisticate apparecchiature del dottor Frankenstein è necessaria a compiere questo piccolo miracolo; basta una pressione sul tasto play, che da generazioni continua a rendere immortali icone del mondo del cinema. Nell’ultimo secolo la settima arte ha affrancato la promessa della vita eterna dalle silenziose due dimensioni in cui pittura e fotografia l’avevano relegata, donandogli volume e suono. Un prodigio, un dono per attori e registi e, al tempo stesso, una maledizione: ruoli e film destinati, nel bene o nel male, a sopravvivergli, cristallizzandoli per sempre in una parte sulla quale pubblico e critica hanno sempre l’ultima parola. Una parte che, a partire da qualche anno, alcuni attori non hanno nemmeno accettato o girato.
Cinema in loop?
È il grande dilemma portato alla luce da Rogue One, spin-off della saga di Star Wars in cui hanno fatto la loro comparsa due personaggi della trilogia originale, Peter Cushing nei panni del Grand Moff Tarkin, e Carrie Fisher in quelli della principessa Leila Organa. Entrambi con le medesime sembianze del 1977. Nel primo caso la Disney ha dovuto chiedere l’autorizzazione alla segretaria di Cushing, detentrice dei diritti dell’attore inglese, morto nel 1994; nel secondo, Carrie Fisher era ancora in vita e ha approvato (e gradito, si dice) il suo ringiovanimento di quasi quarant’anni. Entrambi sono stati animati mediante CGI e motion capture di due attori dalle sembianze simili, Guy Henry e Ingvild Deila, che hanno dato vita ed espressione ai due avatar digitali che compaiono sullo schermo.
Non è certo la prima volta che avvengono sostituzioni del genere nel mondo del cinema o della pubblicità. Solitamente vi si ricorre in quattro casi: per creare stupore e magia (il presidente Kennedy in Forrest Gump, le trasformazioni di Brad Pitt in The curious case of Benjamin Button, il ringiovanimento di Arnold Schwarzenegger in Terminator Genesis, etc.); a causa di una morte improvvisa (Brandon Lee ne Il corvo, Paul Walker in Fast & Furious 7, Oliver Reed ne Il gladiatore, Philip Seymour Hoffman in Hunger Games – Mockingjay, etc.); per una necessità di script (i giovani Ian McKellen e Patrick Stewart in X-Men Conflitto finale, il giovane Jeff Bridges in Tron Legacy, Marlon Brando in Superman Returns); per una precisa volontà di sfruttare un volto celebre (Grace Kelly e Marilyn Monroe nello spot Dior del 2011 e Audrey Hepburn in quello della cioccolata Galaxy nel 2014). Il confine tra la terza e la quarta casistica, in realtà, è molto labile, dal momento che, almeno in partenza, una sceneggiatura è sempre modificabile.
Proprio per questo motivo è stata una precisa scelta della produzione quella di inserire nella storia di Rogue One il Grand Moff Tarkin affidandogli, probabilmente per la prima volta nella storia del cinema, uno dei ruoli principali, con tanto di dialoghi e primi piani. Alla ILM (Industrial Light & Magic) sono occorsi 18 mesi di lavoro per ottenere il risultato finale, risultato che in molti hanno giudicato non sufficientemente credibile e, soprattutto, frutto di una decisione eticamente discutibile: “L’abbiamo fatto per solide e difendibili motivazioni”, ha spiegato John Knoll, supervisore agli effetti speciali di Rogue One, “È un personaggio fondamentale ai fini della storia. Realizzarlo è stato estremamente faticoso e oneroso (basti pensare che nel 2000, per riportare in vita per due soli minuti Oliver Reed, morto durante le riprese de Il Gladiatore, occorsero 3,2 milioni di dollari, ndr.). Non riuscirei a immaginare nessuno che si lanci in una sfida del genere senza un’ottima motivazione. Al momento non stiamo pensando ad altre lavorazioni simili”.
Il destino, purtroppo, ha immediatamente contraddetto Knoll. Solo qualche giorno fa, infatti, gli stati generali della Disney si sono riuniti per decidere cosa fare in merito all’episodio IX della saga di Star Wars, nel quale pare che Carrie Fisher – scomparsa, per una tragica ironia della sorte, lo scorso 27 dicembre, proprio mentre il suo giovane alter ego era in sala con Rogue One – avesse un ruolo determinante. Da giorni sul web e sui giornali fervono dibattiti in merito, se la major deciderà di rimpiazzare Leila con una versione digitale o se la principessa scomparirà alla fine o durante l’episodio VIII, di cui aveva già girato tutte le scene.
Resurrezione digitale: il cinema sta per essere invaso da zombie digitali?
La vera questione è tuttavia un’altra: adesso che il confine è stato varcato e che un attore morto ha a tutti gli effetti “recitato” in un film senza averlo deciso, quale destino attende il cinema e gli attori? Alcuni di loro hanno pensato a tutelarsi ulteriormente rispetto a quanto già previsto dalla legge sul diritto d’autore; Robin Williams, ad esempio, ha predisposto nelle sue ultime volontà che nessuno utilizzi la sua immagine, i cui diritti sono legati alla Windfall Foundation, per 25 anni dalla sua morte. Altri, afferma Mark Roesler, responsabile di una società, la CMG Worldwide, che cura gli interessi delle celebrità anche dopo la loro scomparsa, “sono consapevoli che lo sfruttamento della propria immagine proseguirà oltre la propria vita”. E, volendo, possono prendere provvedimenti in merito: “Oggigiorno un attore può usare lo scanner” spiega Mike McGee, cofondatore dello studio di effetti speciali Framestore (lo stesso che ha ridato vita a Audrey Hepburn nel 2014) “per ricavare un modello 3D del proprio aspetto, e successivamente cederne lo sfruttamento per un certo numero di anni dopo la propria morte. Attori di successo possono scannerizzarsi periodicamente, così da avere a disposizione diverse versioni di sé in diversi momenti della vita”.
Attori schivi e gelosi della propria immagine scompariranno dagli schermi futuri mentre altri di più larghe vedute o con una nutrita schiera di eredi da mantenere continueranno a popolarli, magari con duetti impossibili al fianco di altri celebri volti del passato? Il pubblico sarà pronto a rinunciare alla veridicità di un’interpretazione pur di rivedere l’eroe preferito della propria infanzia tornare al cinema? Hollywood, probabilmente, pensa di si. Almeno a giudicare dalla quantità considerevole di remake, reboot, prequel e sequel che continuano a inondare la scena del cinema mainstream, nella stragrande maggior parte dei casi deludendo le aspettative degli spettatori. Perché se è vero che le storie che si narrano dagli albori della civiltà sono sempre le stesse, e che amiamo rincontrarle ciclicamente nel corso della nostra vita, è anche vero che il cinema si nutre, come qualsiasi narrazione, di idee, personaggi e riflessioni nuove. Il rischio che si prospetta a seguito di un esperimento come quello di Rogue One è che produzioni, anche e soprattutto quelle che possono permettersi investimenti milionari, in grado con i loro kolossal di segnare l’immaginario di milioni di persone, decidano di sfruttare l’effetto nostalgia e attingere a un passato cristallizzato, in un loop infinito popolato da icone zombie reiterate fino allo sfinimento. Cosa che peraltro sta già avvenendo, ad esempio, con l’universo Marvel, DC, Star Wars e anche Disney (si pensi ai live movie ispirati ai classici usciti in questi anni), saccheggiati e sfruttati, spesso con superficialità, in nome di incassi certi al botteghino.
Probabilmente, come già accadde a seguito dell’uscita, nel 2001, di Final Fantasy: The Spirits Within, film d’animazione che con i suoi attori realizzati al computer aprì un dibattito sul futuro degli attori in carne ed ossa, è ancora presto per vedere copie digitali di Harold Ramis sul set di un prequel di Ghostbuster o Christopher Lee in qualche spin-off de Il signore degli anelli. Sarà probabilmente ancora la Disney, una volta deciso cosa fare del personaggio di Carrie Fisher nei prossimi due capitoli della saga, a spingere ulteriormente l’acceleratore verso la resurrezione digitale o a fare un passo indietro, tirando fuori dal cilindro altre soluzioni e andando incontro alla richiesta di molti fan di non violare ulteriormente l’immagine dell’amata principessa Leila.