Probabilmente, fin dalla loro prima edizione gli Academy Awards – da sempre storpiati in premi Oscar – hanno rappresentato una cartina di tornasole della direzione che Hollywood e il suo cinema stavano prendendo in un determinato momento storico. Oggi, forse, questo è l’aspetto più interessante di un evento attraverso il quale da sempre la Mecca del cinema celebra se stessa. D’altronde, lo sappiamo: se dovessimo riflettere sulla giustezza dei premi assegnati ogni anno saremmo costretti a mettere in dubbio costantemente il valore di un premio che spesso è stato negato ai più grandi. La lista dei dimenticati è assai lunga. Solo per fare qualche nome potremmo citare un paio di registi: Orson Welles e Stanley Kubrick. Insomma, due che alla storia del cinema hanno contribuito in modo decisivo, ma i cui film evidentemente non hanno mai attirato il reale interesse dei molti giurati dell’Academy.
Più utile, dunque, osservare i premi assegnati ogni anno come un modo attraverso il quale riflettere sulla moda imperante nel cinema americano. Dopo tutto, negli ultimi anni gli Academy Awards ci hanno raccontato molto di Hollywood. Ci hanno confermato, ad esempio, l’interesse nei confronti delle cinematografie straniere (si pensi al trionfo di Parasite), al contempo ci hanno dimostrato l’attenzione verso il cinema indipendente (Moonlight) e anche verso la rappresentazione delle minoranze (la discutibile vittoria di I segni del cuore – CODA).
Per certi versi l’edizione 2024 degli Oscar ha rappresentato un ritorno alle origini per Hollywood. Dopo anni in cui tendenzialmente si è celebrato il cinema impegnato (d’autore, d’inchiesta, ecc.) la premiazione di ieri sera ha imposto con prepotenza una netta vittoria del grande cinema nei confronti di quello “piccolo”. La vittoria di Oppenheimer, per nulla scontata fino a qualche mese fa, ha preso campo durante la stagione dei premi dimostrando come il film di Christopher Nolan abbia saputo convincere i giurati a preferirlo rispetto ad altri titoli altrettanto validi. Cosa che il film di Nolan ha fatto non attraverso la sua (discutibile) forza autoriale, bensì grazie alla sua prorompente spettacolarità.
L’affermazione del cinema esperienziale
Paradossalmente, l’unico film che avrebbe potuto negare a Oppenheimer la vittoria della statuetta come miglior film era quello meno pericoloso dell’interessante (e variegata) decina selezionata: La zona d’interesse di Jonathan Glazer, già sicuro di una statuetta per il miglior film internazionale. Due film molto diversi tra loro, quello di Nolan e quello di Glazer, che però raccontano in modo originale (e – perché no? – spettacolare a modo loro) due avvenimenti drammatici che hanno segnato la storia di quello che lo storico Eric Hobsbawm ha definito “il secolo breve”: la creazione della bomba atomica e l’Olocausto. Due film, oltretutto, che si attestano come emblemi di quello che potremmo definire un cinema esperienziale: un cinema rappresentato da film che non si limitano a raccontare storie, ma che cercano di fare immergere gli spettatori in una dimensione cinetica capace di assuefare.
Da questo punto di vista, Oppenheimer è la quintessenza del nuovo cinema di Nolan. Regista da sempre interessato alla commistione tra cinema d’autore e cinema spettacolare, Nolan ha progressivamente sfruttato la destrutturazione tipica delle sue opere per ridurre le storie al minimo e dare grande importanza alla componente visiva. Il riconoscimento al suo ultimo film è, in fondo, una sorta di riconoscimento agli azzardi sperimentali di un autore che non si è mai tirato indietro di fronte alle sfide più ardue. Un autore che è saputo passare con una facilità disarmante dai film di supereroi (la trilogia de Il cavaliere oscuro) a opere più personali e profonde (l’ancora oggi sottovalutato The Prestige), per giungere infine a film-tesi capaci di riflettere sull’essenza stessa dello spettacolo cinematografico (Tenet).
La consacrazione di un maestro
Nonostante tutto, comunque, i trionfi di Nolan e del suo film hanno un po’ stupito. Chi scrive, ad esempio, fino a ieri sera era sicuro che il regista britannico fosse destinato a comparire per sempre nelle liste dei perdenti eccellenti degli Oscar. Nel giro di una notte, invece, Nolan è passato dall’essere il regista di blockbuster capaci di incassare milioni di dollari al maestro non solo riconosciuto dal pubblico e dalla critica, ma anche dai suoi illustri colleghi (gran parte dei quali compaiono fra i giurati dell’Academy). Dopotutto era l’anno giusto per tentare il grande colpo. Fin dalle candidature, infatti, il nome di Nolan era sembrato quello con più chance di vittoria.
L’unico forse capace di impensierirlo poteva essere Yorgos Lanthimos, autore di Povere Creature!, mentre meno quotati sono sembrati fin dall’inizio Glazer e Justine Triet (la regia, forse, è l’aspetto meno interessante del suo Anatomia di una caduta). In un mondo buono e giusto, forse, avrebbe potuto dire la sua Martin Scorsese. Ma, per uno che è riuscito ad aggiudicarsi il premio in extremis grazie al non eccelso The Departed, sperare di bissare con una storia capace di mettere alla berlina le colpe dei coloni americani nei confronti dei nativi era veramente da folli.
Premi agli attori ineccepibili, ma quanto poco coraggio
Che la 96a edizione dei premi Oscar non avrebbe eletto protagonista Scorsese e il suo Killers of the Flower Moon lo si era d’altronde già capito dalle nomination per il miglior attore protagonista. Escludere la sorprendente (e difficilissima) interpretazione sopra le righe di Leonardo DiCaprio rappresentava già un segnale sull’evidente interesse dell’Academy nei confronti di una recitazione più realistica, quantomeno nelle sezioni relative agli interpreti maschi. Non sorprende dunque la vittoria (meritata) di Cillian Murphy, capace di dare corpo alle sofferenze mai dichiarate esplicitamente dal suo personaggio in Oppenheimer; mentre convince meno la scelta di premiare Robert Downey Jr., co-protagonista dello stesso film, a discapito delle notevoli prove di Robert De Niro in Killers of the Flower Moon e soprattutto di Ryan Gosling in Barbie dell’esclusa eccellente Greta Gerwig.
Qualche perplessità desta anche la vittoria di Da’Vine Joy Randolph per Holdovers – Lezioni di vita di Alexander Payne, in una categoria, quella della miglior attrice non protagonista, che ha convinto poco anche in fase di candidature (America Ferrera per Barbie, Jodie Foster per Nyad – Oltre l’oceano). Ineccepibile, invece, il premio come miglior attrice protagonista alla coraggiosa Emma Stone, la cui capacità di rendere efficace la caratterizzazione di una bambina nel corpo sensuale di una donna adulta in Povere Creature! è riuscita a convincere i giurati a prediligere lei a discapito della bravissima Lily Gladstone, fiera nativa americana per Scorsese. Diciamo la verità, forse un premio ex equo sarebbe stato più giusto.
La vendetta di Justine Triet
Se Oppenheimer di Nolan è stato il vincitore morale della serata (oltre alle statuette già citate, si è aggiudicato anche quelle per il miglior montaggio, la miglior fotografia e la migliore colonna sonora) e Povere creature! il primo grande sconfitto (11 candidature, 4 premi, di cui 3 “minori”), a recitare un ruolo di primo piano ieri sera è stato anche il film francese Anatomia di una caduta di Triet. Il film, infatti, aggiudicandosi il premio per la miglior sceneggiatura originale ha automaticamente ottenuto anche il premio “la vendetta è un piatto che va servito freddo”. Come molti di voi sapranno, infatti, il film – vincitore lo scorso anno del Festival del Cinema di Cannes – è stato boicottato dalla Francia durante la corsa agli Oscar.
Nonostante le sue qualità e il riscontro a livello internazionale, il film di Triet non è stato selezionato come rappresentante del cinema transalpino agli Oscar a causa di alcune dichiarazioni della regista nei confronti delle politiche di finanziamento ai film del governo Macron. Un ostruzionismo, quello del governo francese, che non ha però arrestato la corsa del film, nominato comunque per la miglior sceneggiatura e la migliore regia.
L’Italia a mani asciutte
L’impossibilità di candidare Anatomia di una caduta come miglior film internazionale ci ha per un attimo fatto sperare nella possibilità di un nuovo successo del cinema italiano dopo La grande bellezzadi Paolo Sorrentino. Purtroppo, il pur valido Io capitano di Matteo Garrone ha dovuto cedere il passo a La zona di interesse di Glazer, che non ha vinto – con buona pace di Massimo Ceccherini, tra gli autori della sceneggiatura del film di Garrone – perché parla di ebrei, ma perché ha saputo raccontare un avvenimento tragico da una prospettiva del tutto inedita.
La vita, comunque, non sarebbe stata facile per il film di Garrone anche se il film di Glazer fosse stato scelto come miglior film in assoluto. Infatti, nella cinquina finale per il miglior film internazionale ci sarebbe stato da battere anche il notevole Perfect Days di Wim Wenders. E un po’ dispiace che un autore che ha fatto la storia del cinema come il regista tedesco non abbia ricevuto un riconoscimento che sarebbe stato giusto e meritato.
Altri vincitori eccellenti, a partire da Miyazaki
A ben vedere, comunque, l’assegnazione dei premi quest’anno è stata decisamente meritocratica e anche per questo sorprendente. Ad esempio, stupisce la scelta di premiare il giapponese Godzilla Minus One per i migliori effetti speciali e non film hollywoodiani quali Mission: Impossibile – Dead Reckoning Parte Uno, oppure Napoleon di Ridley Scott. Mentre forse stupiscono meno i premi per il miglior film d’animazione e quello per il miglior cortometraggio. In entrambi i casi, infatti, il premio ha il sapore di un riconoscimento a due dei più importanti autori del cinema: Hayao Miyazaki e Wes Anderson.
Il ragazzo e l’airone è probabilmente uno dei film più complessi del maestro giapponese. Un’opera oscura e a tratti inquietante che ci cattura grazie alla forza epifanica delle sue immagini. La meravigliosa storia di Henry Sugar, corto diretto da Anderson (che non è andato a Los Angeles a ritirare il premio) e tratto da un racconto dell’autore britannico Roald Dahl rappresenta la quintessenza di un autore che fin dagli esordi ha saputo distinguere il suo cinema da quello dei suoi coetanei. Due premi, a ben vedere, meritati. Come d’altronde in gran parte quelli assegnati quest’anno.