Il trionfo di Everything Everywhere All at Once agli Oscar 2023 arriva a coronamento di una stagione dei premi tanto improbabile quanto prevedibile. Se da un lato, la vittoria come miglior film dell’assurda commedia drammatica realizzata dal duo Daniel Kwan & Daniel Scheinert (alla loro seconda regia) era praticamente incisa nella pietra, dall’altro l’assegnazione del più alto riconoscimento del mondo del cinema a quello che è stato definito ancor prima del suo arrivo nelle sale come “IL FILM DEFINITIVO SUL MULTIVERSO” (con tanto di strizzatina d’occhio all’impianto Marveliano), si configura come un gesto di commiato ad una stagione dei premi che, da molti anni a questa parte ormai, sta assumendo dei contorni sicuramente radicati nell’attualità, ma francamente poco credibili.
Eppure, che piaccia o no, la vittoria da parte di Everything Everywhere All at Once di ben 7 premi Oscar (di cui 6 nelle categorie principali, ossia miglior film, regia, attrice protagonista, attore e attrice non protagonista e sceneggiatura originale) è un fatto, una realtà concreta, accettabile o meno, condivisibile e non. Al di là dei suoi effettivi meriti artistici (facilmente riconoscibili in alcuni casi – prendiamo ad esempio il montaggio o la regia; difficilmente comprensibili, dal punto di vista di chi scrive, in altri – come nel caso della sceneggiatura), il successo dell’opera partorita dalla mente del collettivo noto come Daniels è, se non altro, una bellissima cartina di tornasole per l’importanza sempre più centrale che sta assumendo – specie nell’ultimo decennio – la A24 agli occhi dell’industria di Hollywood e degli addetti ai lavori.
La casa di produzione e distribuzione indipendente fondata “soltanto” nel 2012, è responsabile dell’uscita sul mercato non solo di alcuni dei titoli più discussi e al tempo stesso acclamati della storia cinematografica recente, da Spring Breakers a Ex Machina e Room, passando per The Witch e Moonlight (quest’ultimo vincitore dell’Oscar al miglior film nel 2017), ma anche di aver creduto nelle sconfinate potenzialità di un film decisamente bizzarro nelle premesse e totalmente anarchico nelle conclusioni, che alla fine è riuscito a convincere persino il grande pubblico, quello sovrano, arrivando a superare la soglia dei 100 milioni di dollari al box office mondiale, diventando il primo film indipendente dopo la pandemia a mettere a segno un colpo di tale portata, nonché il primo nella storia della sua casa di distribuzione a riuscirci.
Sacrosante “prime volte”, agognati comeback e meritati riscatti
Ma le imprese “titaniche” – per essere una sola notte – della A24 non si sono di certo esaurite qui, dal momento che lo studio è responsabile della distribuzione di entrambi i film che hanno conquistato i quattro riconoscimenti per la recitazione, tre dei quali sono stati vinti – appunto – da Everything Everywhere All at Once e uno da The Whale, il bellissimo film di Darren Aronofsky che ha sancito tanto l’auspicato ritorno quanto la repentina consacrazione di Brendan Fraser, dopo un’annata – quella dei gloriosi 90’s – “vissuta pericolosamente” sull’onda del successo.
“Ho iniziato a lavorare in questo mondo 30 anni fa. Non è stato facile. Ho imparato ad apprezzarlo davvero soltanto quando la giostra si è fermata”, ha dichiarato l’attore sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles ricordando gli upside down di una carriera a suo modo folgorante, ingiustamente offuscata da quella stessa Hollywood che proprio ieri notte ha permesso alla carriera di Fraser di tornare a splendere, ciliegina sulla torta di una serata fatta di sacrosante “prime volte”, agognati comeback e meritati riscatti.
Alla veneranda età di 60 anni, ad esempio, Michelle Yeoh batte sua maestà Cate Blanchett (ha sfiorato il terzo Oscar per Tár di Todd Field, ingiustamente tornato a casa a mani vuote) e diventa la prima donna asiatica a vincere l’Oscar come miglior attrice protagonista: “Signore, non lasciate mai che qualcuno vi dica che non siete più nel fiore degli anni”, ha detto la grande eroina del cinema action durante il suo discorso di ringraziamento. “Per tutti i ragazzini e le ragazzine che mi assomigliano e che mi stanno guardando stasera, questo è un faro di speranza e possibilità”.
Parole che sottolineano il bisogno di sentirsi riconosciuti indipendentemente dalle affinità psico-somatiche, culturali o anagrafiche, e che riecheggiano in quelle altrettanto sentite del collega Ke Huy Quan, star bambina negli anni ’80 (Short Round in Indiana Jones e il tempio maledetto, Data ne I Goonies), premiato come miglior attore non protagonista.
Dopo aver smesso di recitare per la mancanza di opportunità e aver accumulato una legittima dose di frustrazione, nello stringere tra le mani l’ambitissima statuetta, tra sincera incredulità e tenerissima commozione, l’attore ha dichiarato: “Dicono che storie come questa accadano soltanto nei film. Non riesco a credere che tutto questo stia succedendo a me. I sogni sono qualcosa in cui si deve credere. Avevo quasi rinunciato al mio. A tutti voi là fuori, per favore… Mantenete sempre vivi i vostri sogni”.
Dopotutto, nell’era dello storytelling egotico e autoreferenziale, anche l’Academy vuole – a ragione! – potersi crogiolare nell’encomio solenne e provare a darsi, da sola, una bella pacca sulla spalla, facendo ammenda per tutti gli errori commessi in passato, per tutte le volte che ha preferito mantenere lo sguardo “in casa propria”, di servire da esclusivo appannaggio del cinema fatto dai “grandi uomini bianchi”, senza mai concedere opportunità e dimostrandosi poco inclusiva. Riflessioni in cui possono tranquillamente rientrare – in senso lato, è ovvio! – anche personaggi che non sono mai stati “discriminati” per fattori genetici, ma piuttosto per scarsa considerazione, per indifferenza… o semplicemente, per fastidioso snobismo.
È il caso di Jamie Lee Curtis, icona del cinema horror e di genere, attrice troppo spesso sottovalutata che finalmente, a 45 anni di distanza dal suo debutto in Halloween (il capolavoro di John Carpenter che l’ha insignita del titolo di final girl per antonomasia), conquista la sua prima candidatura e riesce pure a vincere. Oscar per l’interpretazione o Oscar alla carriera? Il confine, lo sappiamo, è labile, sottilissimo; il dubbio, altrettanto legittimo. Ma poco importa: ciò che conta davvero è che anche l’Academy abbia finalmente riconosciuto il mito.
“A tutte le persone che hanno sostenuto i film di genere che ho realizzato in tutti questi anni”, è questa l’emblematica dedica fatta dall’attrice nel suo discorso di ringraziamento, in cui si è anche ritagliata il giusto tempo per omaggiare sua madre Janet Leigh e suo padre Tony Curtis, prima di chiudere con un sospirato: “Ho appena vinto un Oscar!”.
Piccoli momenti di trascurabile felicità
Eppure, di fronte a questo tripudio di apparenti good vibes, il proverbiale elefante nella stanza di fronte al quale ci sentiamo fuori posto – e anche un po’ in imbarazzo – non può essere ignorato, per quanto ci si sforzi di superare la surreale impasse adoperando quel cinismo corrosivo degno del miglior Hugh Grant (ogni riferimento a scenari apocalittici da red carpet NON è puramente casuale!).
È sotto gli occhi di tutti che il palcoscenico appartenga – giustamente! – al nuovo che avanza, desideroso di accaparrarsi con le unghie e con i denti un posto d’onore all’interno di un mercanto e di un’industria. I sistemi secolari sembrano ormai essere un lontano e sbiadito ricordo, mentre la necessità di ripulirsi la coscienza appare come un’arma a doppio taglio, una moneta a doppia faccia, ostentata in maniera talmente aggressiva da risultare fagocitante, impreziosita da contorni involontariamente distopici.
In questo senso, il trionfo di Everything Everywhere All at Once rappresenta sì l’istantanea di una awards season che sembra ormai un copione già scritto, con buona pace di tutte le possibili recriminazioni rispetto alla sorprese e ai colpi di scena dell’ultimo minuto, ma anche la discutibile volontà da parte dell’Academy di allontanarsi in maniera radicale, sempre più convinta, da una sorta di prestigio gerarchico e sistemico che ha dominato gli Oscar fin dalla notte dei tempi.
Ma purtroppo, anche quest’anno, l’organizzazione professionale ha dimostrato la sua totale incapacità di far coincidere la meritocrazia con determinate visioni politico-antropologiche, meno che mai con le ostinate ripartizioni ecumeniche che avevano polarizzato le ultime edizioni del premio (come dimostra, ad esempio, il numero eccessivo di riconoscimenti elargiti al tedesco Niente di nuovo sul fronte occidentale).
E mentre in un Multiverso lontano lontano, alcuni di noi immaginano candidamente un doveroso riconoscimento a titoli come Gli spiriti dell’isola, Tár, Elvis o The Fabelmans (che esulano dalla grandezza dei registi che hanno apposto su queste storie la loro firma, ma che riguardano esclusivamente le rispettive potenzialità drammaturgiche), in quello reale, che dobbiamo per forza di cose accettare, bisognerà accontentarsi soltanto di piccoli momenti di trascurabile felicità, come Lady Gaga che si spoglia del suo ingombrante allure per offrire una performance intensa, sensibile e profonda sulle note di “Hold My Hand”, o il nostro caro John Travolta che si commuove nel ricordare la “sua” Olivia Newton-John prima di introdurre il toccante segmento “In Memoriam”.