giovedì, Ottobre 3, 2024
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Il Neo Western: dalle radici del genere alla modernità

Basta leggere le notizie del giorno, buttando un occhio alla rassegna stampa quotidiana: inseguimenti, rapine, sparatorie… il tempo sembra essersi fermato, riavvolgendo il proprio nastro e tornando indietro all’ottocento selvaggio, quando le regole erano abolite e i fuorilegge dettavano legge. Quello stesso periodo in cui la conquista era la parola d’ordine: dell’ultima frontiera, dell’oro, di una diligenza o di un treno; tutti erano a caccia di qualcosa, da ottenere con ogni mezzo a disposizione, più o meno lecito.

Questi sono i valori disposti lungo gli assi cartesiani che racchiudono le linee guide del western, un genere prettamente americano (come il noir o il musical), che affonda le sue radici profonde nelle contraddizioni degli Stati Uniti prima ancora del boom di Hollywood e della costruzione del mito della grande fabbrica dei sogni.

Il western si muove tra le praterie sconfinate del nord, i paesaggi aridi del middle west rurale, i dederti dell’estremo ovest al confine con il Messico e tutte quelle terre un tempo di proprietà dei nativi americani, gli unici padroni del Nuovo Mondo espropriati, lentamente, di ogni bene dai colonizzatori bianchi; mentre il Mito a stelle e strisce trova il proprio fondamento e i propri eroi, banditi e tutori della legge, cavalieri e peones, rivoluzionari e cacciatori di taglie si muovono sullo sfondo come pedine, pronti a comporre un grande affresco che irromperà, senza faticare, nell’immaginario collettivo comune. Pat Garrett, Billy The Kid, Wyatt Earp, Butch Cassidy, Sundance Kid, Jesse James, Doc Holliday, Buffalo Bill, Geronimo, Toro Seduto: eroi e protagonisti di un’epopea emigrata dalle pagine di storia a quelle delle sceneggiature hollywoodiane, creando nuovi personaggi e miti legati alla realtà ma consegnati ormai alla sfera dell’immaginario pop.

Il genere western, purtroppo, è sopravvissuto al cinema con alterne fortune, dimostrando di non essere così forte nei confronti dei cambiamenti della storia, del tempo e del gusto: dopo aver avuto grande fortuna negli anni del secondo dopoguerra (grazie anche ai grandi maestri del genere, come John Huston, Howard Hawks, John Ford) incontra quasi una naturale evoluzione “della specie” – e del gusto comune – adattando le violente avventure di cui erano protagonisti sceriffi integerrimi, schivi cavalieri pallidi, bounty killer senza nome e famosi fuorilegge tra le strade sporche e cupe delle metropoli, nei vicoletti luridi tra le luci e le ombre dei grattacieli: il noir è il figlio diretto del western, che ne costituisce le radici profonde; vedere un film noir è come ammirare un vecchio western, solo che i cavalli sono sostituiti dalle auto e l’ambientazione è, ormai, del tutto metropolitana. Gli anni ’40 e ’50 assistono alla rapida ascesa di questo genere più duraturo del precedente, forse anche per via delle numerose contaminazioni di genere che ha sperimentato nel corso del tempo, dimostrando sempre di sapersi adattare ai diversi tempi e gusti della gente; dal canto suo, il western ha incontrato due solitarie parentesi di felicità negli anni ’60 sia in America (dove diventa veicolo per un cinema di denuncia, pulp, violento e crudo, come insegna Sam Peckinpah) che in Italia, dove raggiunge picchi tali di rielaborazione personale delle tematiche trattate e dei modelli di partenza tanto da creare un sottogenere autonomo (e forse più famoso e fruibile rispetto alla matrice originale) conosciuto come “spaghetti western” e che incontra nelle opere di Sergio Leone, Sergio Corbucci, Damiano Damiani e altri il plauso nazionale – ed internazionale – del pubblico e della critica.

Nonostante questa parentesi felice, gli anni ’70 sanciscono la progressiva eclissi del genere fino alla sua scomparsa (o latitanza) dagli schermi: negli ultimi vent’anni ci sono stati dei tentativi per rilanciarlo sul mercato aggiornandolo ai gusti del pubblico, come gli originali – indie, low budget o d’autore – e i remake americani (Django Unchained e The Hateful Eight di Quentin Tarantino, Il Grinta dei fratelli Coen o Quel Treno per Yuma di James Mangold), le contaminazioni di genere sospese tra il fumetto, la comedy, lo sci – fi, l’horror e il pulp (Il Buono, Il Matto e il Cattivo di Kim Ji-Woon; Blueberry di Jan Kounen; Jonah Hex, Cowboys & Aliens; Wild Wild West di Barry Sonnenfeld, il serial creato da Jonathan Nolan Westworld solo per citarne alcuni), oppure gli “esperimenti” provenienti da luoghi estranei alle ispirazioni culturali alla base del western, luoghi come l’Europa, l’Asia o l’Australia (The Salvation di  Kristian Levring; Slow West di John Maclean; Sukiyaki Western Django di Takashi Miike o il macedone Dust); ma ogni tentativo si è rivelato, nella maggior parte, un insuccesso.

Forse la vera chiave per risollevare il genere western, riportandolo se non ai fasti di un tempo almeno ad una piacevole fruizione per il grande pubblico, sancendo quel legame particolare che ha sempre avuto con le masse in quanto genere pop, sta nella sua stessa evoluzione: è possibile adattarlo ad oggi, alla modernità, calandolo nella nostra quotidianità, ambientarlo tra le strade e i problemi moderni ma senza trasformarlo in un noir, mantenendo la stessa struttura originale ma sostituendo solo le muscle cars ai cavalli?

Il neo western esiste, e negli ultimi anni sta incontrando anche degli esiti felici in film che – più o meno palesemente – si rifanno all’immaginario tradizionale: sfruttano quei cliché che sono stati alla base del successo di genere, ma riuscendo a superarli rielaborandoli in modo creativo e trovando agganci suggestivi con la realtà che ci circonda. Già la pellicola cult Drive, del regista danese Nicolas Winding Refn, era servita da apripista, pur essendo tratta da un romanzo noir, il lungometraggio di Refn mantiene tutti gli stilemi tradizionali, dal mito del cavaliere pallido laconico e di poche parole (il Driver di Gosling, “straniero” senza nome) che, in una babilonica Los Angeles, cerca di salvare la bella e indifesa fanciulla di turno (Irene, interpretata dalla Mulligan) dai “cattivi” – e, ovviamente, fuorilegge coinvolti in attività illegali – Bernie Rose e Nino, i quali non esiteranno ad attentare alla vita del Driver mettendo a repentaglio le persone care che gli sono intorno (come il maestro/aiutante/mentore Shannon, che ha il caratteristico volto di Bryan Cranston); la trama rimbalza dal tradizionale mito del viaggio dell’eroe – riletto attraverso la chiave dello schema della fiaba di Vladimir Propp – agli archetipi tipici di qualunque mitologia western, alla quale sostituisce la tradizionale ambientazione naturalistica selvaggia, imponente e sconfinata in favore del cemento e dell’asfalto della metropoli caotica attraversata da auto lanciate in folli inseguimenti.

Sulla falsariga si pongono due film usciti nel corso di quest’anno: l’australiano Goldstone e l’americano Hell or High Water, prodotto e distribuito da Netflix e disponibile dal 18 novembre anche per il pubblico italiano: due neo western in piena regola che riconfermano la possibilità di rilanciare un genere giocando con gli ingredienti di base ma solo riuscendo a ricombinarli, sapientemente, tra loro per creare prodotti tradizionali quanto atipici.

Goldstone di Ivan Sen, ad esempio, attinge a piene mani da un immaginario preesistente: muovendosi con disinvoltura tra i territori dell’Ovest selvaggio e quelli del noir hard – boiled di chandleriana memoria, riesce a decostruire il mito della frontiera – tutto americano – conformandolo agli elementi culturali e morfologici dell’impervio paesaggio australiano. Il protagonista Jay Swan è un detective, ma è borderline, “straniero”, “mezzo sangue” (perché per metà aborigeno) ma soprattutto immortalato mentre è alla disperata ricerca di sé stesso (dopo la fine di un matrimonio e la morte della figlia); la ricerca sul campo della ragazza asiatica scomparsa (e coinvolta in un traffico di “schiave sessuali” dall’estremo oriente) si rivela una sorta di viaggio sciamanico fin dentro le radici di un non luogo fuori dal tempo e dallo spazio, reso possibile grazie all’assurdità metafisica del paesaggio nel quale si muovono le persone coinvolte nella vicenda. Il paesaggio perde quell’aspetto antropizzato per tornare alla purezza selvaggia dei grandi spazi e degli enormi silenzi, suggerendo un’atmosfera di inquietante attesa: ogni personaggio è in cerca di qualcosa (la Verità, sé stesso, una ragazza scomparsa, soldi, il proprio passato, fortuna etc.) e non possono far altro che andare incontro al proprio destino assecondando proprio quel limbo temporale nel quale sono confinati e nel quale tutto appare come sospeso, asfissiante e rarefatto; il risultato è un non convenzionale “neo western dell’anima” tutto australiano, personale e moderno, tradizionale ma caratteristico.

Un caso analogo – ma con le sue evidenti differenze – è costituito da Hell or High Water, diretto dallo scozzese David Mackenzie, che riesce quasi nell’impossibile: ovvero far risorgere il genere western dal suo sepolcro, attraverso un riuscito mix tra tradizione e innovazione, codici classici di genere rinnovati e applicati alla realtà, mostrando le contraddizioni che affliggono un Sud degli Stati Uniti talmente rurale da essere rimasto immutato nonostante lo scorrere del tempo, ed inserendole in uno schema talmente classico nel suo impianto da trasformarsi, subito, in un arrangiamento moderno e all’avanguardia di una sinfonia antica quanto le radici stesse del mito della frontiera. L’abilità di Mackenzie risiede nella capacità di aggiornare i tradizionali topoi  inserendoli in un contesto moderno e al passo con i “tempi della crisi”: la classica grande rapina al treno cambia testimone e dai cavalli si passa ai cavalli rombanti di vecchi pick up, con sullo sfondo il desolato e arido paesaggio del Texas punteggiato da pompe petrolifere; i due fratelli protagonisti si macchiano di azioni palesemente fuorilegge e – almeno per uno dei due, Toby – a spingerlo è la disperazione: la scelta è tra perdere tutto o sopravvivere, ma a che prezzo? Anche a costo di condannare la propria anima per l’eternità. Come ricorda uno dei due Texas Ranger lanciati sulle tracce dei due rapinatori di banche Toby e Tanner, quelle terre un tempo appartenevano ai suoi avi nativi americani, nello specifico Comanche, e furono sottratte loro dagli invasori bianchi; ora spetta ai bianchi vedersele portar via da “loro stessi”, da quei nemici incarnati dalle banche avide di denaro. Il mondo messo in scena da Mackenzie è un crudele “cane – mangia – cane” dove ognuno è un nemico per l’altro (significato del nome Comanche, che dava il titolo originale alla sceneggiatura del film: Comancheria) e la guerra per la sopravvivenza è crudele, feroce ma soprattutto senza esclusione di colpi: ogni distrazione può costare cara e pregiudicare la conquista della libertà intesa proprio come ultimo avamposto della frontiera selvaggia.

Hell or High Water non solo riesce ad aggiornare la grammatica del vecchio west ai nostri tempi 2.0; ma riesce addirittura a far coesistere insieme il presente (la crisi, le banche, l’America rurale che arranca e soffre, la paura per il futuro dei figli) con il passato remoto di un genere, popolato da indiani, fuorilegge a caccia di banche, sceriffi integerrimi difensori della legge, territori da conquistare e nazioni da fondare.

Ludovica Ottaviani
Ludovica Ottaviani
Imbrattatrice di sudate carte a tempo perso, irrimediabilmente innamorata della settima arte da sempre | Film del cuore: Lo Chiamavano Jeeg Robot | Il più grande regista: Quentin Tarantino | Attore preferito: Gary Oldman | La citazione più bella: "Le parole più belle al mondo non sono Ti Amo, ma È Benigno." (Il Dormiglione)

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