Questa volta, l’ultima incarnazione di Bela Lugosi ci ha lasciato veramente. Anche Martin Landau, l’ottantanovenne premio Oscar che, proprio nel 1995, aveva vinto la prestigiosa statuetta per aver restituito nell’atipico biopic di Tim Burton – Ed Wood – un malinconico ritratto del divo ormai dipendente dalla droga, condannato all’oblio crudele nel quale troppo spesso Hollywood confina le proprie stelle più luminose, distratta e non curante del lento incedere del tempo. Fortunatamente un destino simile non è toccato, realmente, a Landau, che è anzi uno dei pochi fortunati la cui carriera è stata capace di rilanciarsi in modo incredibile intorno ai sessant’anni.
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Il debutto con il maestro Alfred Hitchcock
Martin Landau, nato il 20 Giugno 1928 a Brooklyn (NYC), passa con disinvolta naturalezza – e giovanile incoscienza – dalla collaborazione come fumettista e illustratore presso il New York Daily News alla corte degli autori più importanti della cinematografia anni ’60, ovviamente sotto l’egida del prestigioso “Actors Studio” di Lee Strasberg. Il primo ruolo significativo lo ottiene proprio in un film del maestro del brivido Alfred Hitchcock: Intrigo Internazionale (1959), a fianco a star del calibro di Cary Grant ed Eva Marie Saint, segna il debutto di un giovane Landau nell’empireo dei grandi, al quale farà seguito la partecipazione ai due kolossal firmati da Joseph L. Mankiewicz e George Stevens, rispettivamente Cleopatra (1963) con la coppia simbolo della Hollywood patinata dell’epoca, Liz Taylor e Richard Burton, e La Più Grande Storia Mai Raccontata (1965) accanto a Max Von Sydow, Charlton Heston, José Ferrer, Sal Mineo, Angela Lansbury, Sidney Poitier, John Wayne, Shelley Winters e Telly Savalas.
I divi dello studio-sistem lo avevano accolto nella loro cerchia ristretta, e l’attore newyorkese non aveva esitato ad approfittarne prendendo parte a due serie tv di culto per l’immaginario pop come Mission: Impossible (dal 1966 al 1969) trovando anche il tempo di sposare, nel 1957, la co-protagonista del serial, Barbara Bain; e poi una serie simbolo per il genere sci-fi come Spazio 1999 (dal 1974 al 1977). Sul set ritrova la moglie, ma non il successo: nonostante gli ottimi ascolti collezionati dai due prodotti, le carriere dei due interpreti sembrano destinate a restare confinate al pit-stop della celebrità, scivolando progressivamente in una lunga teoria di ruoli minori (perfino in B-Movies) dai quali si distinguono il film di John Sturges La Carovana dell’Alleluia (1965) e Rosolino Paternò, soldato… (1970) per la regia del “nostro” Nanni Loy.
Da Francis Ford Coppola a Woody Allen
A regalare una nuova giovinezza a Landau sono, appunto, gli anni ’90 – o comunque la fine degli ottanta – con una vera e propria riscoperta perpetuata da grandi registi, come Francis Ford Coppola: è il regista newyorkese a volerlo sul set del suo Tucker – Un Uomo e il suo Sogno a fianco a Jeff Bridges; Landau ha compiuto sessant’anni, ma con questo ruolo riesce ad ottenere la prima nomination agli Oscar e vince un Golden Globe. Un’ulteriore svolta nella propria vita privata arriva con il divorzio dalla Bain (dopo 33 anni e due figlie) e il nuovo legame sentimentale con l’attrice Gretchen Becker che lo traghetta verso il suo successo più grande, la dolente – ed inquietante – interpretazione di Lugosi nella favola freak orchestrata da Burton, un biopic atipico sul “peggiori regista di sempre”, Ed Wood, che si trasforma nelle mani gotiche di Burton in uno straniante inno ai sognatori, ai diversi ai freaks (appunto) che prima o poi troveranno il proprio posto nel mondo e, in qualche modo, la propria felicità.
Martin Landau torna a collaborare con Tim Burton in altre due occasioni: un breve cameo all’interno del film Il Mistero di Sleepy Hollow (1999) come doppiatore all’interno di Frankenweenie (2012). Sempre durante il crepuscolo degli anni ’80- e precisamente nel 1989 – aveva prestato il proprio volto al chirurgo oculista, filantropo e assassino (su commissione) Judah Rorosenthal nel cult di Woody Allen Crimini e Misfatti: una profonda riflessione sull’esistenza – o meno – di Dio, sulla Sua presenza ma soprattutto sulla Sua ingerenza nella vita degli uomini, chiamati ad appellarsi semplicemente al libero arbitrio e alla propria legge morale per discernere il crimine e la colpa; per calarsi al meglio in questo ruolo Landau compie un viaggio fin nel cuore delle proprie radici ebraiche newyorkesi (come, del resto, anche Allen), essendo figlio di genitori immigrati dall’Austria negli USA. Ed è subito una nuova nomination agli Oscar come Miglior Attore Non Protagonista.
L’ultima fatica per Atom Egoyan
È importante segnalare anche la sua collaborazione con altri importanti registi americani mainstream come Ron Howard (nel suo EdTv, 1999), John Dahl (con Rounders – Il Giocatore, 1998, che vede Landau nei panni del mentore di un giovane Matt Damon affiancato da Edward Norton) e Frank Darabont (The Majestic, 2001, con Jim Carrey). L’ultimo autore che ha voluto Martin Landau protagonista di un proprio film è stato, nel 2015, Atom Egoyan che ha scelto l’attore newyorkese e il collega Christopher Plummer (oltre al tedesco Bruno Ganz) per interpretare due anziani ebrei mossi da un unico desiderio: la giustizia, annidata nella volontà di ritrovare il colpevole tedesco che sterminò le loro rispettive famiglie ad Auschwitz.