I lettori che hanno passato, fosse anche da poco, la trentina custodiranno senz’altro nella mente folgoranti squarci della loro prima visione: una ragazza dai lunghi capelli biondi si tuffa in mare a notte inoltrata, nell’acqua si forma un mulinello schiumoso che la inghiotte fra grida che nulla hanno di umano; un pescatore racconta una strana storia di guerra, di abbandono e logorante attesa al largo delle Filippine… e di “mostri”, con occhi smorti di bambola che, silenziosi, avanzavano sotto la superficie alle prime luci dell’alba.
Si è sempre meno sensibili alla Preistoria ma aver trascorso l’infanzia all’inizio degli anni Novanta significa anche essersi imbattuti, almeno una volta, negli ultimi sprazzi del suo fascino abissale, nell’incanto un po’ macabro di “mascheroni” pisciformi la cui smorfia paurosa sembrava rivendicare l’assoluto dominio sul mare. Quando la bocca del grande squalo bianco, per la prima volta da quando è iniziata la proiezione, si spalanca fuori dall’acqua con essa si spalanca pure, benché per poco, questo mondo scomparso!
Come raccontare Lo squalo (1975) di Steven Spielberg a più di quarant’anni di distanza se non in questo modo, mediante suggestioni “trasversali”? Riassumerne la vicenda è scontato: nella cittadina balneare di Amity, una turista finisce maciullata da un pescecane, ma il sindaco (Murray Hamilton) decide di non prendere seriamente la cosa per non compromettere la stagione estiva. Una combriccola di pescatori locali cattura uno squalo tigre, illudendosi di aver posto fine all’incubo. Le vittime, purtroppo, aumenteranno, tra la resistenza delle forze politiche legate agli interessi della cittadina e la paura dello sceriffo Brody (Roy Scheider) che la catena di morti possa proseguire. Solo il coraggio di quest’ultimo, coadiuvato da un giovane ittiologo (Richard Dreyfus) e da un ramponiere un po’ folle e dal tragico passato (Robert Shaw), potrà determinare l’avvenire di Amity…
Più interessante sarebbe ripercorrere, in estrema sintesi, le fasi che decretarono il successo di Spielberg e come quest’ultimo avesse operato, senza esserne del tutto conscio, su un immaginario pregresso, florido e già ben consolidato. Il timore delle profondità marine e delle sue feroci “sentinelle” si perde nella notte dei secoli. Se ne possono trovare tracce perfino in un testo antico come il Poemetto della Pesca di Oppiano di Cilicia, autore greco dell’inizio del terzo secolo!
Con un vertiginoso salto temporale potremmo, invece, “atterrare” nello studio del pittore americano John S. Copley (1738-1815) il quale immortalò un episodio avvenuto nel 1749 quando un giovane, tale Brook Watson, intento a nuotare nudo nel porto dell’Havana, fu attaccato da un enorme squalo: il dipinto (1778) che ne sorse fece scalpore alla mostra della Royal Academy a Londra, rivelando il terrore degli squali a un settore della popolazione che prima ne era all’oscuro (Ellis, 2000). Le librerie del primo trentennio del Novecento brulicarono, purtroppo, di opere decisamente “punitive” verso i pescecani. Su tutte, il volume di memorie, tristemente noto ad ogni biologo marino, Shark! Shark! (1933), dove il capitano Bill Young riversò tutto il suo odio per tali esseri.
Testi come questo – e sono parecchi – costituirono il remoto (o, in certi casi, coevo) modello di un prolifico filone cinematografico conosciuto come “travelogues” ossia “memorie di viaggio audiovisive”, oscillanti fra il “gabinetto delle curiosità” e timide velleità di divulgazione zoologica. Fra gli innumerevoli titoli va, almeno, ricordato The Devil’s Playground (1932), in cui vediamo il giovane ed eccentrico milionario George W. Vanderbilt III – artefice venturo della Vanderbilt Foundation – in una delle sue tante spedizioni nei Caraibi finanziate dall’Accademia di Scienze Naturali di Filadelfia (oggi Drexel University), mentre insegue su una barca d’altura alcune temibili (per l’epoca) “aberrazioni” degli abissi quali il barracuda, la manta o “pesce-diavolo” e, ovviamente, divo per eccellenza, il Carcharhinus perezi o “squalo del reef”.
Poteva forse Peter Benchley rimanere indifferente di fronte a un immaginario simile? D’altro canto, l’idea di un enorme squalo che mette sotto scacco una città balneare, ronzava nella mente dello scrittore newyorchese già dal 1964 ma riuscì a dilatarla in un romanzo soltanto fra il ’73 e il ’74. Scovare il titolo adatto fu il vero problema. Le prime opzioni oscillavano dal maldestro al pretenzioso: “Acque immobili”, “Fauci letali”, “Le fauci del leviatano” ecc… l’unica parola che, assillante, continuava a far capolino era, appunto, “fauci”. Perché, allora, non chiamarlo direttamente “Fauci” (Jaws, in inglese)?
Il romanzo uscì e, a sorpresa, scalò in breve tempo tutte le classifiche, divenendo il best-seller del momento. Una recensione su “Cosmopolitan” destò l’attenzione dei produttori Darryl Zanuck e David Brown i quali, da vecchie volpi del cinema, ci misero poco a capire quale “gallina dalle uova d’oro” avessero per le mani. La densità dell’opera era tale da richiedere un primo sgravio: di ciò si occupò Howard Sackler (futuro sceneggiatore del teso Salvate il Gray Lady) il quale, colto subito lo spirito della storia, seppe adattarlo alle esigenze filmiche. Non volle, però, comparire nei crediti come autore della riduzione.
Fu allora che Steven Spielberg bussò alla porta del duo di prima, chiedendo se fosse disponibile qualche buon copione. Lo Spielberg di cui parliamo, badate, non è lo stesso vulcanico regista che oggigiorno tutti conoscono, quando non idolatrano, bensì un ventottenne riccioluto e insicuro, reduce dal “mezzo successo” di Duel (1971) – opera para-fantastica girata, fra l’altro, per la tv – e, fatto ben più castrante, da quel sonoro (e immeritato) fiasco che ha il nome di Sugarland Express (1974). Non era, dunque, una garanzia per il botteghino ma questo non impedì a Zanuck e Brown di fidarsi delle sue potenzialità e così gli mostrarono il primo ‘draft’ di Jaws. “Jaws? Fauci?” – si chiese il giovane Spielberg – “Che razza di storia sarà? Un thriller su un dentista?”. Pagina dopo pagina, si accorse di aver già inscenato un’avventura simile. Anzi, era una vera e propria rilettura “marina” di Duel: entrambe le storie, a modo loro, narravano di un “leviatano”, del suo appetito insaziabile e di una preda che, poco alla volta, ne diventa la sfidante. Oltretutto la parola “Jaws” era composta di quattro lettere, esattamente come “Duel”: quanta scemenza nel voler trovare a tutti i costi i “segni del destino”!
Steven volle riscrivere il copione da capo, allo scopo di entrarci definitivamente in sintonia, nondimeno i contributi decisivi vennero prima da Carl Gottlieb e poi dal grande John Milius (anch’esso non accreditato) il quale scrisse il tragico monologo della corazzata Indianapolis, messo in bocca al personaggio di Quint, debitamente condensato dall’attore Robert Shaw quando giunse la sua scena. Le ardue (e tutt’ora imitatissime) soluzioni visive della pellicola portano la firma di Bill Butler (successivamente curerà la fotografia di Generazione Proteus e Frailty); per alcune realistiche sequenze subacquee di raccordo, Spielberg si avvalse, invece, del contributo degli esperti Ron e Valerie Taylor, già attivi nel documentario Mare blu, morte bianca di Gimbel & Lipscomb, mentre il celeberrimo episodio dell’attacco alla gabbia “anti-squalo” venne girato in una piscina degli studi della M-G-M.
Come ricordano, ironici, col senno di poi, Zanuck e Brown in un’intervista rilasciata per il 25° anniversario de Lo squalo, il Grande Mostro Bianco (ribattezzato, per via di rattristanti e interminabili incidenti tecnici, “Il Grande St****o Bianco”) si sarebbe rivelato fatalmente il “divo” della pellicola: non ne occorrevano, dunque, altri ma semplici buoni interpreti che gli gravitassero attorno. Il più difficile da scegliere fu chi potesse incarnare al meglio Quint, il linguacciuto ramponiere: il sunnominato Shaw (il bieco Lonnegan de La stangata) riuscì, infine, a prevalere sull’agguerrita concorrenza. Strano ma vero: “Il Grande St****o Bianco”, chiamiamolo pure così, diede del filo da torcere alle maestranze fin dai primi collaudi in acqua; nonostante l’eccellente lavoro di Bob Maddy (“padre” della terrificante piovra di 20.000 leghe sotto i mari) le correnti al largo del Nantucket Sound (Oceano Atlantico) furono violentissime con le parti meccaniche e, ogni volta che il “pupazzone” affondava a peso morto, a Zanuck e Brown pareva che stesse affondando, un pezzetto alla volta, la loro stessa carriera di produttori. Le cose, per fortuna, andarono diversamente.
La versione definitiva de Lo squalo – sapientemente montata da Verna Fields, mentore di Spielberg e da tutti affettuosamente chiamata “Mother Cutter” (“Mamma-Montaggio”) – venne proiettata al Rivoli Theatre di New York. La folla era immensa, rimase in silenzio fino alla fine dei titoli di coda. Scattò, poi, un lungo applauso… e fu solo il primo dei tanti che il giovane cineasta ricevette nella sua formidabile carriera. In fondo, anche 47 Metri (2017) nasce da qui. Ancora seduti a leggere? Di corsa, a guardare il film! Tan-tan-tan-tan-tan-tan…