giovedì, Ottobre 10, 2024
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La La Land: il classico moderno di Damien Chazelle

In occasione della sua entrata nel catalogo Netflix, torniamo a riflettere sul musical con protagonisti Emma Stone e Ryan Gosling.

Classici si nasce, oppure si diventa? Non sembrerebbero esserci dubbi: di solito un’opera d’arte ha bisogno di tempo (e del tempo) per vedersi riconosciuto lo status di “classico”. Per diventarlo è necessario avere la capacità di abbattere le barriere dello spazio-tempo, nonché quelle del gusto. Non a caso i classici sono sempre difficili da giudicare. L’aura che li circonda li fa apparire ai nostri occhi intoccabili. E più passa il tempo, più questo atteggiamento si amplifica. Al giudizio critico, potenzialmente capace di metterne in dubbio eventuali limiti di varia natura, si sostituisce la riflessione critica, certamente più equilibrata (per non dire “democristiana”).

Questo lo si nota in particolare nelle arti con alle spalle secoli di storia: per assurdo, oggi nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione il valore della Cappella Sistina. Ma talvolta lo si riscontra anche in un’arte giovane come il cinema. Un esempio è rappresentato dai capolavori dell’epoca del muto. Se ci capita di vederli o rivederli, magari al cinema grazie a lodevoli iniziative come quella del Cinema ritrovato della Cineteca di Bologna, il nostro sguardo critico si addolcisce di fronte al piacere di una visione che percepiamo come un viaggio nella storia del cinema. Lo status di “classico” di cui può godere quel tale film induce noi spettatori alla reverenza. Sebbene questo atteggiamento sia vero nella maggior parte dei casi, siamo obbligati ad ammettere che ci sono film che sembrano – al contrario – destinati a nascere classici. Il musical La La Land di Damien Chazelle è uno di questi.

Uscito negli Stati Uniti nel dicembre del 2016 e in Italia nel gennaio dell’anno successivo, il film ha lanciato la carriera del suo autore e confermato il talento dei suoi due interpreti principali: Emma Stone e Ryan Gosling. L’entrata di La La Land nel catalogo Netflix (occhio, è disponibile anche su Rai Play) ci offre una piacevole scusa per tornare a riflettere su un’opera capace di armonizzare la forza travolgente della modernità e il classicismo dell’età dell’oro di Hollywood con l’intento di raccontare una storia che a prima vista può apparire banale (lui musicista in crisi d’identità, lei aspirante attrice, ad attenderli una storia d’amore romantica e tormentata senza lieto fine), ma che in realtà, grazie all’estro di Chazelle, ai sublimi componimenti di Justin Hurwitz e all’alchimia tra i suoi interpreti acquisisce una dimensione universale e atemporale.

La forza del cinema, tra passato e presente

Da un punto di vista spirituale La La Land sembra provenire da un’altra epoca. Damien Chazelle, già regista coraggioso e ambizioso, non lo nasconde. Anzi, lo dichiara fin dall’inizio con quell’immagine in formato 1:33:1 in bianco e nero che si colora e si allarga in Cinemascope abbracciando l’intero schermo. Il glorioso passato lascia dunque posto alla contemporaneità? Sì e no. Perché nell’incipit, a dire il vero, passato e presente si fondono per dare vita a un universo che se da una parte strizza l’occhio alla modernità (basterebbe la prima sequenza, sulle note di Another Day of Sun) dall’altra sa di non poter prescindere dalle proprie radici storico-artistiche. Per questo motivo, durante il corso della narrazione, il passato della settima arte è costantemente evocato.

Non si tratta di un mero vezzo autoriale, ma di un modo attraverso il quale facilitare un dialogo critico tra il film e i suoi (più o meno) dichiarati modelli sulle origini del cinema, sulla sua evoluzione, sulle sue costanti, nonché sul luogo dove – nel nostro immaginario – esso ha trovato terreno fertile dove crescere rigoglioso: quel lembo di terra alla periferia di Los Angeles (da qui in poi L.A.) passato alla storia con il nome di Hollywood. La classicità che La La Land emana è infatti in parte assorbita dai continui riferimenti al cinema che incontriamo durante la narrazione: i manifesti cinematografici affissi nella camera di Mia (Emma Stone), tra i quali campeggia quello con il primo piano di Ingrid Bergman; il rimando a Gioventù bruciata (1955) di Nicholas Ray, con tanto di sequenza ambientata all’Osservatorio Griffith di L.A. (oltretutto introdotta da un’inquadratura panoramica analoga a quella presente nel film con protagonista James Dean); il cenno a Casablanca (1942), con Mia che mostra a Sebastian (Ryan Gosling) la finestra dove Humphrey Bogart e Bergman si affacciano nel capolavoro di Michael Curtiz.

Ma, di per sé, è già la storia tra Mia e Sebastian a contrarre più di un debito con l’immaginario cinematografico (ovviamente classico). Ogni riferimento a È nata una stella (1937) di William A. Wellman (il film-capostipite che ha ispirato i remake musicali di George Cukor, Frank Pierson e Bradley Cooper) non è chiaramente casuale. Nel film di Wellman un attore sulla cresta dell’onda si innamora di un’aspirante attrice, la aiuta a entrare nel mondo dello spettacolo offrendole un’occasione, ma quando le loro carriere prendono direzioni opposte – mentre lei raggiunge il successo, lui cade nell’anonimato – lui si toglie la vita. Rispetto al film di Wellman, in quello di Chazelle il rapporto tra i due protagonisti è paritetico. Mia e Sebastian, infatti, condividono lo status di sognatori: lei vuole diventare attrice, lui desidera aprire un locale jazz. Sappiamo tutti che ce la faranno, sebbene pagheranno un prezzo molto alto (la fine della loro relazione). Il pessimismo tragico che contraddistingue È nata una stella lascia così il posto in La La Land a toni più malinconici, dolorosi ed elegiaci.

The City of Stars Is (re)Born

Ad accomunare i film di Wellman e Chazelle è anche la rappresentazione disincantata di Hollywood. In entrambe le opere la “città delle stelle” presenta due facce: una rassicurante che sembra voler accogliere i sognatori a braccia aperte, e una demoniaca che rivela la sua vera natura di divoratrice di malcapitati illusi che varcano i suoi confini. Una galassia luminosa che nasconde dietro le apparenze luccicanti un profondo buco nero che per Chazelle non corrisponde solo a Hollywood ma anche a L.A. Per lui, infatti, i due luoghi sono un tutt’uno, come se il primo non potesse esistere senza il secondo e viceversa. In fondo, come dargli torto: se L.A. ha concesso a Hollywood di esistere, Hollywood ha contribuito a fissare l’immagine della città che la ospita nell’immaginario collettivo.

Per Chazelle la città è un (non) luogo che corre costantemente il rischio di diventare anacronistico e trasformarsi in un museo delle cere non dissimile dalla magione di Norma Desmond in Viale del tramonto (1950) di Billy Wilder. Eppure, nonostante tutti i suoi lati negativi, in La La Land persiste il fascino di un (non) luogo in cui il successo parrebbe essere alla portata di tutti («City of Stars, are you shining just for me?»). L.A./Hollywood presenta a tratti ancora una peculiare verginità, una purezza inscalfibile. Un’immagine certamente molto diversa rispetto a quella offerta dallo stesso Chazelle nel più recente Babylon, dove al sogno si sostituisce il macabro orrore tipico di un girone infernale (con tanto di peccatori al seguito: lussuriosi, mitomani, despoti, accidiosi, ecc.).

Un musical autoconsapevole

Fin qui ci siamo soffermati sulla moderna classicità di La La Land, e sul rapporto che intrattiene con il cinema, la sua storia e la sua “fabbrica”. È doveroso ora soffermarsi su un altro aspetto, anch’esso centrale: la posizione che il film assume nei confronti del suo genere di appartenenza, il musical. Per farlo è necessario però fare prima un passo indietro nel tempo. Negli anni ’50 André Bazin, fondatore della rivista Cahiers du cinéma, scrisse un breve saggio dedicato all’evoluzione del cinema western all’interno del quale definì Il cavaliere della valle solitaria (1953) di George Stevens un “sur-western”, ovvero un western consapevole di essere tale. Secondo Bazin, infatti, il film non solo presentava puntualmente i cliché tipici del genere, ma proponeva contestualmente una (implicita) riflessione sul western e i suoi leitmotiv.

Il film di Chazelle compie un processo analogo nei confronti del musical. All’apparenza La La Land riprende il classico schema della compenetrazione tra realtà e finzione tipico della tradizione dei film cantati hollywoodiani. Ma alla lunga si percepisce un cortocircuito. Nonostante gli eccelsi numeri musicali firmati da Justin Hurwitz si intravede l’impossibilità di rievocare i fasti dei film che hanno reso grandi (tra i tanti) Fred Astaire e Ginger Rogers. Un ingorgo autostradale, all’inizio del film, viene trasfigurato in una danza irrefrenabile, ma alla fine torna a essere un ingorgo. La magia in La La Land dura solo l’attimo di un’esitazione: il tempo che ci mette Sebastian a suonare una struggente melodia (Mia & Sebastian’s Theme) la sera di Natale in un locale chic, oppure quello di una fantastica danza tra le stelle dell’Osservatorio Griffith dei due innamorati.

La La Land è un film consapevole di non essere ciò a cui vorrebbe aspirare (e che a volte cita: come nel caso di Un americano a Parigi di Vincent Minnelli del 1951). Innanzitutto, perché i tempi sono mutati e il genere musical non è riuscito a sopravvivere allo scorrere del tempo. Consapevole della propria inattualità, La La Land ha il pregio di non tentare di rinverdire i fasti del passato, ma anzi fieramente palesa tanto la propria natura anacronistica quanto il gap nei confronti dei capolavori del passato. Prendiamo a mo’ d’esempio una delle sequenze più iconiche del film: la passeggiata di Mia e Sebastian sulle colline di L.A. dopo una festa che ben presto si tramuta in un numero musicale con tanto di balletto.

La sequenza è straordinaria, ma non perché sia all’altezza dei modelli dichiarati (tra i tanti anche sua maestà Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen del 1952), ma proprio per l’esatto contrario. Ryan Gosling si aggrappa a un palo della luce come Gene Kelly, canticchia, fa qualche passo di tip-tap, ed Emma Stone lo segue. Il loro incedere è goffo. Sono maldestri. Le loro voci sono imparagonabili rispetto a quelle degli attori del passato. Eppure, ci commuoviamo. Perché? Perché nelle loro sciagurate movenze intravediamo un afflato di vita. In quei gesti così impacciati c’è dolcezza. C’è tutta la tenerezza di un amore (purtroppo impossibile) che sta nascendo tra due ingenui sognatori in cui non fatichiamo a immedesimarci.

Suonala ancora, Seb

Un film classico, una riflessione sulle (poche) luci e le (molte) ombre di L.A./Hollywood, e anche un musical capace di riflettere sulla propria natura. Ma siamo davvero sicuri che La La Land sia “solo” questo? In realtà, se il film di Chazelle continua ad appassionarci è anche (se non soprattutto) perché racconta una storia che a ogni visione ci emoziona fino alle lacrime. Alzi la mano chi durante l’ultimo struggente incontro tra Mia e Sebastian non ha avuto bisogno di una confezione di kleenex. Cinque anni dopo il loro ultimo incontro, lei entra nel locale di lui. I due si guardano. Lui si siede al piano e inizia a suonare la loro canzone. È un tuffo al cuore: per Mia, per Sebastian, per noi.

Sliding doors: irrefrenabili, le immagini della vita possibile che i due avrebbero potuto vivere ci travolgono. Che cosa sarebbe successo se Sebastian avesse baciato Mia al loro primo fortuito incontro, se avessero potuto coltivare le loro passioni senza compromessi, se tutto fosse andato come doveva andare? “Se”, maledetto “se”. Sarebbe stato tutto bellissimo, se non fosse subentrata la vita con la sua imprevedibilità a spazzare via tutto senza alcun ritegno. Una vita talmente bastarda che non li fa solo allontanare, ma li fa pure incontrare di nuovo per ricordarli – nel caso se lo fossero dimenticati – cosa hanno perso per coronare i loro sogni.

Già, perché a conti fatti Mia e Sebastian hanno anche vinto, ma senza vera gloria. Al lieto fine tipico di tanti musical, La La Land contrappone un “fine lieto”. Mia e Sebastian acciuffano la felicità (lui apre il locale jazz, lei è una star del cinema), ma non riescono (ci riusciranno mai?) ad affrancarsi dal dolore per quello che hanno perso. Ci sarà sempre una parte di loro che vagherà nel limbo delle occasioni perdute. Mentre la vita continuerà a scorrere, tra le note di una canzone e i fotogrammi di un film, nella consapevolezza che, come diceva qualcuno, dopotutto domani è un altro giorno. O forse sarebbe meglio dire: dopotutto domani sarà un altro giorno di sole.

Diego Battistini
Diego Battistini
La passione per la settima arte inizia dopo la visione di Master & Commander di Peter Weir | Film del cuore: La sottile linea rossa | Il più grande regista: se la giocano Orson Welles e Stanley Kubrick | Attore preferito: Robert De Niro | La citazione più bella: "..." (The Artist, perché spesso le parole, specie al cinema, sono superflue)

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