Restaurata dai tipi bolognesi de “L’Immagine Ritrovata”, torna con sorpresa in cartellone In the mood for love (2000), l’opera che liberò il cinema del cinese Wong Kar-wai, classe ’58, dalla ristretta cerchia di frequentatori di sale d’essai, per aprirsi finalmente al grande pubblico (la pellicola raccolse in Francia oltre 800.000 presenze), da almeno tredici anni (ossia da quando si commosse con 84, Charing Cross Road di David Jones) desideroso che lo schermo tornasse a narrargli di un moderno “breve incontro”; che non indugiasse, cioè, nel sentimentalismo sciatto, ma con pudicizia, attraverso la ricercatezza di pose, luci e piccoli dettagli, evocasse il sodalizio non carnale – e perciò ancor più straziante – di una coppia per la quale non c’è futuro; due solitudini che non trovano la fermezza di volgere in atto concreto il proprio amore “di sogno”, ammesso che questo fosse lo scopo fin dall’inizio poiché, a pensarci bene, se il sogno si fosse compiuto avrebbe perso la sua stessa essenza, lasciando loro solo un volgare simulacro.
Conflitti quali natura e cultura, pochezza e immaginazione, aspirazioni individuali e obblighi sociali, perfezione artistica e imperfezione del mondo reale torneranno, dunque, da mercoledì 28 aprile, a stimolare le riflessioni di amanti d’ogni età che vedranno il film per la prima volta, lenendo per un’ora e mezza almeno – complici le immagini di Christopher Doyle (Le tentazioni della luna), i costumi di William Chang e l’indimenticabile partitura di Umebayashi Shigeru – le tensioni dell’ultimo, fosco biennio.
Liberamente tratta dal racconto lungo Un incontro (Mondadori, 2005) di Liú Yǐchàng, la nostra storia prende forma ad Hong Kong nel 1962: fra i vari immigrati rifugiatisi nella colonia britannica dopo la conquista di Shànghǎi per mano dell’Esercito Rivoluzionario Nazionale, seguiamo l’ambizioso caporedattore Zhōu Mùyún (Tony Leung) e la timida segretaria Sū Lìzhēn (una splendida Maggie Cheung). Sebbene siano entrambi sposati e ricevano regolarmente uno stipendio, a causa della carenza di alloggi si vedono costretti a ripiegare su stanze concesse in subaffitto.
Per coincidenza, si trasferiscono nello stesso condominio, lo stesso giorno, vivendo l’uno accanto all’altro, attorniati da vicini eccentrici e un po’ impiccioni. Ogni pomeriggio, per pochi attimi, gli sguardi di Zhōu e Lìzhēn si incrociano nei corridoi o sulle scale della mensa dei poveri. Poiché restano quasi sempre soli a casa, a mano a mano fra i due cresce una riguardosa amicizia, appena smossa da una discretissima attrazione. Dopo aver scoperto, però, che i rispettivi coniugi hanno una relazione segreta, anziché abbandonarsi al risentimento o, al più, alla delusione, loro stessi non potranno fare a meno di innamorarsi…
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È ben difficile scrivere qualcosa di nuovo rispetto a ciò che validi studiosi e recensori (es. Rey Chow, Sheldon H. Lu, Audrey Yue, Vivian P.Y. Lee, Jean Ma, Karen Fang, gli italiani Mario Sesti, Adele Cozzani o Franco Marineo) già evidenziarono nei loro saggi riguardo a In the mood for love: la dolce lentezza che sullo spettatore ha l’effetto di un incantesimo, gli urbani crepuscoli, i pigmenti cangianti, i neri vellutati e i rossi profondi, le corse in tassì lungo strade rese pressoché indistinguibili dalla pioggia; non ultima, l’efficacia nel far sentire sulla pelle tutto «l’isolamento e il ricatto delle convenzioni sociali e morali nella Hong Kong degli anni Sessanta» (cit. Dieter Wunderlich); “anni di fioritura” come insinua il titolo originale (“Huāyàng niánhuá”), sinceramente rimpianti dal regista che vi trascorse l’infanzia, ma i cui dorati petali si sgualcirono presto (recita, infatti, la voce narrante: «Quando uno ripensa a quegli anni lontani, è come se li guardasse attraverso un vetro impolverato: il passato è qualcosa che può vedere, ma non può toccare; e tutto ciò che vede è sfocato, indistinto»), celando, comunque, a stento antichi spettri di mortificazione.
Di personale, potremo soltanto aggiungere che, fra un vago eco del cinema di Douglas Sirk e un altro del giovane Kurosawa nella sua fase “neorealista”, Wong Kar-wai è riuscito dove, l’anno prima, fallì il collega americano Sydney Pollack con l’anodino Destini incrociati: tradurre poeticamente in sequenze filmiche di “vuoti”, attese, reticenze ciò che passa nella mente di un uomo e una donna per i quali la scoperta del tradimento del proprio consorte diventa quasi secondaria di fronte al dolore, alla definitiva presa d’atto dello smarrimento di sé; dell’impossibilità di sentire, vivere, affermare una relazione se non nelle vesti di “gioco”, di sogno, di amorosa rappresentazione, perciò mai davvero “reale” o, forse, come su accennato, proprio perché di rappresentazione si tratta (e, quindi, vicina allo spirito dell’Arte), più reale della realtà medesima.
Ponendo, infine, a confronto In the mood for love e 2046, il caleidoscopico seguito girato quattro anni più tardi, viene spontaneo il collegamento con uno stile di scrittura assai calligrafico, risalente all’epoca Tang, denominato corsivo eccentrico (“kuángcǎo”, in cinese): come ogni corsivo esso si distingue per l’unificazione dei tratti ma che, nel caso in esame, viene esasperata al punto tale che il carattere di partenza ne esce del tutto irriconoscibile. I tratti sono, infatti, fusi in una pennellata continua, senza stacco alcuno: l’esito estetico è di alto pregio e fortissimo impatto, ancorché privo di qualsivoglia utilità pratica nella sua assoluta indecifrabilità.
In the mood for love è, in un certo senso, il “carattere di partenza” e 2046 – per la «vertigine della citazione e il piacere dell’abbandonarsi alla perfezione di immagini cariche di memoria» (Marineo, ’14) – il suo imprecisabile, avveniristico, squisito “ghirigoro”. Si consiglia, per affinità tematiche, il denso The hole (Dōng) (‘98) del malese Míng-liàng Tsài.