Nel libro “Una teoria per la giustizia”, il filosofo americano John Rawls sosteneva che: «La distribuzione naturale delle cose non è né giusta né ingiusta; né è ingiusto che gli uomini nascano in alcune posizioni particolari all’interno della società. Questi sono semplicemente fatti naturali. Ciò che è giusto o ingiusto è il modo in cui le istituzioni trattano questi fatti». Queste parole tornano alla mente durante la visione del film spagnolo Il Buco, diretto dall’esordiente Galder Gaztelu-Urrutia e distribuito nei giorni scorsi da Netflix.
ATTENZIONE: da qui in poi, SPOILER!
Si tratta di un film metaforico, un po’ sulla falsariga di Madre! di Darren Aronofsky. Il “buco” a cui si fa riferimento nel titolo è una sorta di prigione costituita da celle (in totale sono 333) sovrapposte, abitate ciascuna da 2 persone. I prigionieri non scontano la loro “pena” in un’unica cella ma, ogni mese, vengono spostati – in una cella più in alto, in una più in basso, dipende dal caso – ed è possibile che condividano il loro spazio vitale con più persone.
Ciò che contraddistingue il “buco” è l’effettiva presenza di una fessura quadrangolare che rende comunicanti tutte le celle (attraverso cui, però, non è possibile salire o scendere). La fessura è attraversata ogni giorno da una sorta di tavolo/monolite sul quale sono adagiate succulente pietanze, imbandito al piano più alto dell’edificio: lo “0”, dove sono dislocate le cucine. Quindi, dal piano più elevato, la tavola comincia a scendere: 1° piano, 2° piano, 3° piano, e via dicendo. È fin da subito evidente che, essendoci 333 piani, più la tavola scende più il mangiare comincia a scarseggiare. Così, nella prigione c’è chi mangia a sazietà (ai primi piani), chi si deve accontentare degli avanzi (ai piani intermedi) e quelli che invece sono destinati a morire di fame (agli ultimi piani).
È in questa realtà che viene catapultato il protagonista, Goreng (Iván Massagué). Dapprima ospite del piano 48° e poi del 131° insieme al disilluso Trimagasi (Zorion Eguileor), che si ciberà anche della sua carne; poi del piano 33° con l’idealista Imoguiri (Antonia San Juan), con la quale condividerà (per poco, causa suicidio della donna) il piano 202°; fino a giungere al piano 6°, da condividere con il coraggioso e leale Baharat (Emilio Buale Coka). È lì che Goreng comprende la necessità di disinnescare il sistema perverso su cui si basa il “buco”. È ingiusto che vi siano persone che possono abbuffarsi e persone che, all’opposto, muoiano di fame: così il protagonista si prefigge l’obiettivo di dare da mangiare a tutti, soprattutto a coloro che risiedono ai piani inferiori. E lo raggiunge non solo proponendo teoricamente un piano di ridistribuzione del cibo, ma anche compiendo materialmente un viaggio discendente fino all’ultimo piano, insieme al proprio compagno di cella, facendosi trasportare dal tavolo/monolite. Un viaggio certamente periglioso, in cui il protagonista dovrà vedersela con la disperazione dei prigionieri che si tramuta, piano dopo piano, in ceca violenza animalesca, ma che lo condurrà effettivamente al famigerato livello 333.
Siamo giunti così alla fine del film. Il protagonista arriva a destinazione, e cosa accade? Ma sopratutto, che significato possiamo dare a quanto accade? Non è difficile capire per quale motivo il finale de Il Buco abbia sconcertato gran parte degli spettatori. Si tratta – è ovvio, direbbe Trimagasi – del momento in cui i cosiddetti “nodi” vengono al pettine, non tanto quelli narrativi (c’è un inevitabile colpo di scena) quanto quelli “concettuali”. Per comprendere il finale del film però è necessario riconsiderare l’opera nella sua interezza e sopratutto essere consapevoli del messaggio di cui si fa portatrice. Non che sia difficile…
Il Buco non fa altro che raccontare – metaforicamente, lo si è detto – la realtà socialmente gerarchica in cui viviamo, con conseguente descrizione di una vera e propria lotta di classe (se vogliamo, un po’ quello che faceva con altri risultati e con più realismo Parasite di Bong Joon-ho). Nei piani alti coloro che conoscono il benessere e che possono gustare i piatti più appetibili; nei piani bassi invece coloro che non conoscono altro se non la povertà; nel mezzo, quella sorta di “maggioranza silenziosa” (di cui sostanzialmente quasi tutti noi facciamo parte) che invidia chi sta sopra e denigra (nel migliore dei casi) o è indifferente (nel peggiore) chi sta sotto, e che cerca di “passà ‘a nuttata”, per dirla alla Eduardo De Filippo.
Il problema però, come dice anche John Rawls, è che la propria condizione/posizione è dettata dal caso. Nel caso specifico del film, il livello della cella di ciascun prigioniero non è determinato da meriti particolari; inoltre è bene ricordare che il livello cambia di mese in mese: chi è al 1° piano può facilmente ritrovarsi al 130° e così via. E, purtroppo, non c’è etica che tenga: a prevalere nella società descritta ne Il Buco è sostanzialmente l’avidità, l’indifferenza e, spesso, la violenza. Anche un personaggio come Goreng, all’inizio tutto d’un pezzo da un punto di morale, con il passare dei mesi si trasforma in un essere disumano mosso esclusivamente dall’istinto di sopravvivenza (cosa che comporta il venir meno di qualsiasi sentimento di empatia nei confronti degli altri carcerati e l’emergere, allo stesso tempo, di un brutale cinismo).
Insomma, quello descritto dal regista Galder Gaztelu-Urrutia, coadiuvato degli sceneggiatori David Desola e Pedro Rivero, è un mondo che ha perso completamente la bussola a livello morale. Un mondo in cui i suoi abitanti non sanno più reagire contro le ingiustizie, ma accettano di diventare parte integrante di un sistema iniquo. In parole povere: è il mondo in cui viviamo quotidianamente (e forse l’attuale emergenza legata al Covid-19 ci fa apparire ancora più pertinente la riflessione del regista spagnolo). Una delle domande che si pone il film, però, è la seguente: è possibile scardinare questo sistema perverso? E qui torniamo al finale.
L’ultima sequenza vede Goreng giungere all’ultimo piano del “buco”: il 333. Lui e Baharat ci sono arrivati non senza difficoltà. Hanno fatto mangiare tutti i prigionieri che da giorni erano digiuni, ma hanno mantenuto intatto un unico piatto (una porzione di panna cotta) che, nella loro idea rivoluzionaria, rappresenta il “messaggio” da rivolgere a coloro che dirigono la prigione: se possiamo fare a meno di un dolce, se dimostriamo che possiamo ridistribuire il cibo facendo sì che nessuno muoia di fame e riusciamo a privarci di qualcosa grazie alla nostra forza di volontà, allora vuol dire che un cambiamento è possibile; ovvero, il tempo dei lupi è finito e l’uomo si riappropria della dignità.
Giunti all’ultimo piano però, i due si accorgono di non essere soli: vi è anche una bambina, sopravvissuta grazie alla madre (Alexandra Masangkay), anche lei prigioniera, che periodicamente riusciva a farle arrivare del cibo. Per sfamarla, i due decidono di cambiare i propri piani. Le consentono di mangiare il dolce, ma a patto che lei diventi il nuovo “messaggio”. Fin qui tutto ok. Ma, prima che la bambina compia la sua ascesa – immagine simbolica della speranza riposta nelle nuove generazioni, più consapevoli e giuste – accade qualcosa di inaspettato: Baharat muore. Il cadavere è scoperto da Goreng, dopo che questi si sveglia di soprassalto a causa di un incubo. È bene specificare che Baharat era stato ferito gravemente in una scena precedente: va da sé, quindi, che potrebbe essere morto a causa di quelle ferite. Quando però Goreng trova il cadavere, un dubbio si instilla nello spettatore: ma se Baharat fosse stato ucciso? In fin dei conti la pozza di sangue è molto vicina al collo del protagonista (è stato sgozzato?), anche se non vengono inquadrate specifiche ferite.
Azzardiamo a questo proposito un’altra ipotesi, e quindi un’altra lettura del finale. Se Baharat è stato ucciso, e sappiamo che non può essere stato Goreng visto che stava dormendo, allora chi è stato? Chiaramente il cerchio di stringe. Pur lasciando qualche dubbio su quanto accaduto, tutti gli indizi porterebbero ad un’unica verità (secondo la nostra ipotesi): l’assassino è la bambina (che oltretutto, quando Goreng scopre il cadavere, è sveglia e guarda il protagonista con occhi spalancati).
Se prendiamo quindi per vera l’ipotesi che la bambina abbia ucciso Baharat, è chiaro che il finale del film assume un significato assai cupo. Se in un primo momento la bambina – simbolo di innocenza – rappresenta l’uomo che verrà, moralmente più consapevole rispetto alle disuguaglianze sociali in atto nella società (e quindi, in potenza, più propenso a risolverle), l’omicidio di cui sarebbe responsabile dimostra come la fiducia che il film ripone nelle nuove generazione è più problematica (e anche meno retorica) di quanto sembra. Da questo punto di vista, più che con una un’affermazione (speranzosa), Il Buco si conclude con una domanda (inquietante): l’umanità riuscirà davvero a cambiare?
Il fatto che le fondamenta di questa (presunta) rinascita possano essere macchiate dal sangue di Baharat fa supporre che la risposta sia negativa. Ma, nonostante questo, Goreng non ha altra scelta se non quella di sperare in una possibile rivoluzione, facendo in modo che la bambina compia la sua ascesa. Forse la sua è una battaglia persa e il suo sacrificio più che un concreto atto eroico è, in realtà, testimonianza di una sconclusionata battaglia utopica destinata al fallimento, che lo fa apparire un po’ come un novello Don Chisciotte (vi è un riferimento esplicito nel film) che pensa di combattere terribili nemici (nel caso del film, il sistema o, se vogliamo, la società) e si ritrova invece a cavalcare contro mulini a vento (quindi ad essere prigioniero delle proprie illusioni). “Forse”, perché il film si interrompe senza dare conferma circa la nostre supposizioni. La bambina ascende: arriverà al piano “0”? Verrà fermata dagli altri prigionieri? Verrà uccisa strada facendo? E se davvero giungerà al primo piano, il messaggio di cui è portatrice verrà recepito da chi di dovere? E, ancora, da chi eventualmente dovrà essere recepito il messaggio?
Tante domande (ovvio), nessuna risposta (altrettanto ovvio). Così, Il Buco si conclude esplicitando la sua portata metaforica – che comunque non è univoca: in fin dei conti, la prigione potrebbe anche essere vista come un circolo infernale di dantesca memoria, o ancora come una rappresentazione dell’aldilà (Paradiso, Purgatorio, Inferno) -, ma occultando qualsiasi possibile spiegazione circa gli eventi a cui abbiamo assistito. E, in fondo, non è proprio questo persistere del mistero ad affascinarci?