La Walt Disney compie 100 anni. Un solo secolo le è bastato per influenzare in modo irreversibile la cultura globale, non solo cinematografica. Oggi ancora più di ieri, riflettere su Disney significa avvicinarsi a un universo in continua espansione capace di fagocitare altri brand (Star Wars, Marvel, 20th Century Studios) e abbracciare infiniti ambiti. Crossmediale quasi fin dalla nascita, la major ha raggiunto il successo prima grazie a cinema e fumetti, ampliando poi il suo raggio d’azione: letteratura, moda, industria dei giocattoli, oggettistica, e perfino il business dei parchi giochi (ambito quest’ultimo assai caro al suo fondatore).
Siamo costantemente circondati da riferimenti alla creatura che il giovane Walt Disney aveva prima sognato, poi immaginato e infine creato: nelle nostre case, per strada, persino in ufficio. Certo, nonostante la sua fervida immaginazione Walt non poteva immaginare che la sua società avrebbe avuto un così grande (e duraturo) successo. Chissà, magari pensava di essere “solo” un creativo con ottime idee e molto spirito d’iniziativa. Il destino lo avrebbe invece trasformato in un demiurgo (di parte) del nostro immaginario.
Sliding Doors
Come tutte le storie di successo, anche quella della Disney presenta delle zone d’ombra. Diversi studiosi, tra cui la nostra Mariuccia Ciotta, studiando la major e il suo fondatore ne hanno messo in evidenza anche i lati più compromettenti: i problemi finanziari che condussero Disney al rischio bancarotta (superato, in particolare, grazie all’aiuto del Governo americano); le liti interne, come quella storica tra Walt e l’amico Ub Iwkers (co-creatore di Topolino); le lotte sindacali che sconquassarono la major; le accuse di antisemitismo.
Tutte ambiguità che hanno contribuito a rendere affascinante la storia della Disney. Una storia fatta di ascese vertiginose e cadute fragorose, di fallimenti, momenti difficili sia dal punto di vista creativo (gli anni ‘70) e di altri parzialmente oscuri e tuttora sottovalutati (gli anni ‘80); ma anche piena di enormi successi, come testimonia la rinascita coincidente con l’uscita di La sirenetta nel 1989 e proseguita con la distribuzione di La bella e la bestia (1991), Aladdin (1992) e Il re leone (1994).
Una storia che abbiamo persino rischiato di perdere quando nel 1928 la Universal, che aveva stipulato con Disney un accordo per la distribuzione dei propri corti nelle sale, si appropria dei diritti di sfruttamento della prima creazione di Disney: Oswald the Lucky Rabbit. Di colpo, la Walt Disney si ritrova senza il suo cartoon di punta. Una situazione non facile da gestire.
Ammettiamolo, la maggior parte delle persone non avrebbe avuto la forza di rialzarsi. Ma Walt Disney (mi si perdoni il gioco di parole) non faceva già più parte di quella “maggior parte”. Lui, infatti, non solo riuscì a rialzarsi, ma lo fece tramite la creazione di Topolino (che, di fatto, condannò per molti anni l’irriverente coniglio all’oblio).
Plasmare l’immaginario
La nascita di Topolino proietta finalmente la Disney verso il successo, ma non solo. Parallelamente inizia a farsi evidente la capacità della major di impattare sull’immaginario del pubblico. Non certo casualmente, il Governo americano inizia a interessarsi alla major e alla possibilità di sfruttare i suoi personaggi e le sue storie per fare propaganda. A partire dall’entrata nel secondo conflitto mondiale degli Stati Uniti, nel 1941, Topolino, Paperino, Pippo, e persino Minni e Clarabella vengono arruolati per convincere gli americani della necessità di entrare in guerra. Così, in quel periodo, Topolino nei fumetti compie un’eroica impresa a Parigi, seminando il panico tra i perfidi nazisti (Topolino nella seconda guerra mondiale), mentre al cinema Paperino se la vede brutta nella Germania hitleriana (Der Fuehrer’s Face).
Ancora oggi i prodotti Disney influenzano le nostre vite. Fortunatamente in modo diverso. “Disneyano” è divenuto persino un termine che, associato a un film ad esempio, ne mette in evidenza l’eccessiva mielosità sentimentale. Dagli anni ‘20 in poi, ogni generazione è stata segnata dalle opere Disney, e spesso – e questo è davvero incredibile – le medesime opere hanno avuto un impatto anche sulle nuove generazioni. Chi scrive, ad esempio, essendo nato alla fine degli anni ‘80 è stato certamente influenzato dai film dei primi ‘90, ma al contempo ha subito il fascino – grazie all’home video – pure di film storici quali Dumbo (1941), Il libro della giungla (1967), Gli Aristogatti (1970). E lo stesso vale anche per i giovanissimi, cresciuti a pane e Pixar, ma comunque pur sempre legati a quel passato (in certi casi persino “trapassato”) glorioso, oggi oltretutto più facilmente fruibile grazie alle piattaforme streaming.
Disney Legacy
La verità è che le opere di Walt Disney sono senza tempo. Attenzione, però, ciò non significa che siano a-temporali. La produzione Disney ha sempre dimostrato di essere al passo con i tempi, da un punto di vista tecnico, narrativo, ma anche – se non soprattutto – tematico. Ha saputo cogliere le tensioni di un’epoca in più di un’occasione, come dimostra anche il recente posizionamento nei confronti del cosiddetto politically correct. Una scelta che secondo alcuni detrattori avrebbe inficiato sulla sua creatività, come dimostrerebbero i recenti insuccessi. Ma siamo davvero sicuri che sia questo il motivo?
La verità è che la Disney, così come la Pixar, è in crisi da tempo ormai. Lo dimostra il ricorso ai sequel – di Frozen – Il regno di ghiaccio (2013), di Ralph spaccatutto (2012) – e la messa in cantiere di live action a discapito di produzioni originali. E il politically correct non c’entra proprio nulla. Anzi, la politica odierna della Disney è pienamente in linea con la sua storia e il suo atteggiamento di fronte al nuovo: intercettare il cambiamento, evitare di ostacolarlo, ma al contrario accoglierlo a braccia aperte.
Da Biancaneve a Wish
La storia della Disney è la storia di continui cambiamenti ed evoluzioni, di sfide ardue e all’apparenza impossibili da portare a termine trionfalmente. Come testimonia anche la produzione di Biancaneve e i sette nani (1937). Quando Walt Disney decide di realizzare il primo lungometraggio animato non è un pischello alle prime armi. La sua società ha già più di dieci anni di storia e all’attivo cortometraggi accolti con successo da pubblico, critica e addetti ai lavori. Eppure nessuno crede nella riuscita della sua impresa. Viene dileggiato dalla stampa, ridicolizzato dai colleghi cineasti, ma alla fine dimostra di avere ragione lui. La storia della principessa preda della malefica strega è solo il primo passo. Quelli successivi, coincidenti con la produzione di Pinocchio e Fantasia (entrambi del 1940), sono – se possibile – ancora più ambiziosi, sia da un punto di vista creativo sia economico.
Il successivo Dumbo (1942) dimostra però che non è solo una questione di budget. La storia dell’elefantino viene realizzata in poco tempo (3 mesi) e costa assai meno. Eppure il risultato finale non cambia: siamo pur sempre al cospetto di un capolavoro. La verità, è che la Walt Disney è sempre riuscita a fare di necessità virtù. Anche nel suo momento meno glorioso, guarda caso coincidente con la scomparsa del suo fondatore avvenuta nel 1966, ha inanellato una serie di film “minori” che hanno comunque alimentato il nostro immaginario: ad esempio, Robin Hood (1973) e Red e Toby nemiciamici (1981). Per non parlare dei piccoli grandi cult oggi dimenticati come Basil l’investigatopo (1986), curiosa rivisitazione delle avventure di Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle, e Taron e la pentola magica (1985), fantasy che ha più di un debito con la saga di Il signore degli anelli.
Fino ad arrivare ai recenti rilanci. Quello degli anni ‘90, certo, proseguito fino all’inizio di 2000 con i vari Pocahontas (1995), Hercules (1997) e Mulan (1998), ma anche quello collocabile tra il 2009 e il 2013, anni in cui escono La principessa e il ranocchio (2009), omaggio al cinema del passato non digitale, Rapunzel – L’intreccio della torre (2010), e soprattutto i già citati Ralph spaccatutto e Frozen. Un rilancio che però ha dimostrato dei limiti, lo abbiamo visto. Certo, le opere di spessore non sono mancate – il sottovalutato Raya e l’ultimo drago (2021) -, ma in generale produzioni come Encanto (2021) e Strange World (2022) hanno convinto poco o nulla.
E arriviamo infine a Wish, il film che fin dal titolo celebra lo slogan di Cenerentola “i sogni son desideri di felicità”, pensato come sorta di cartoon-omaggio alla storia della Disney. La fatica al botteghino negli Stati Uniti e i non entusiasti pareri della critica rappresentano forse già un campanello d’allarme.
E, al di là dei giudizi personali, confermano l’attuale poca volontà a sperimentare, a cercare nuove strade espressive, nuove storie da raccontare. Si continua a procedere fieramente lungo la stessa strada, tradendo un po’ i principi che avevano fatto grande la Disney in passato. Ma niente paura, c’è sempre il tempo di altre rinascite. Probabilmente è solo questione di tempo (speriamo).