Pochi giorni fa, a Santo Domingo, proprio nel mezzo delle riprese del suo ultimo progetto, intitolato Dangerous Waters, Ray Liotta, all’anagrafe Raymond Allen Liotta, è passato a miglior vita. Di questo solido alleato della Decima Musa – l’ennesimo, quest’anno, prematuramente salito in cielo accanto a Gaspard Ulliel, William Hurt, Catherine Spaak, Jacques Perrin, Lino Capolicchio, Fred Ward – possiamo dire fosse ancora un “giovanotto” (67 anni) e come tale avrebbe potuto lasciare ancora molti, moltissimi preziosi segni nel suo campo. Suona retorico ma spiace davvero. Viso butterato, ambiguo e severo alla Eddie Constantine (definizione di Joe Denti, istrionico “narratore” della storia del cinema), lineamenti e occhi, di un glauco quasi irreale, inconfondibili. Non era “bello”, non per i criteri estetici imperanti. Senza dubbio carismatico, capace, se ben diretto (e lo fu sovente, da cineasti della sensibilità di Jonathan Kaplan, Paul Schrader, Mark Rydell), di passare con sottili mutamenti dello sguardo dalla più infantile tenerezza alla più viscida e folle malignità.
Talento e possanza (entrambi fruttarono all’attore già nell’87 una candidatura ai Golden Globe per Qualcosa di travolgente di Demme) non sono, però, sufficienti a Hollywood: nella losangelina Babele di perfidia e avanzi di pellicole tutto cade in prescrizione, comprese le peggiori aberrazioni, fuorché la genuinità. E i chili di troppo. Proprio gli ultimi (uniti, forse, a certi vizi interpretativi, “smorfie” gigionesche che Liotta non è mai riuscito a correggere) confinarono il nostro, per oltre dieci anni, essenzialmente in parti improbabili o grossolane per opere del circuito home entertainment (es. In the Name of the King di Uwe Böll). Vivaddio, nell’ultimo triennio Adi Hasak, Noah Baumbach e Steven Soderbergh – rispettivamente con la fortunata serie tv Shades of Blue, Storia di un matrimonio e il noir No Sudden Move – gli fecero dono di una seconda giovinezza artistica.
«Ho sempre amato vestire i panni del gangster. Sono più gratificanti di quelli del presidente degli Stati Uniti» disse una volta. Impagabile faccia di bronzo! Gangster o, meglio, furfante di piccolo cabotaggio (Quei bravi ragazzi) con il broncio di un monello di strada e un identico destino, già segnato. Non è tutto. Giocatore di baseball degli anni Dieci resuscitato in un odierno, fatato campo di granturco (L’uomo dei sogni), ex marine con le mani sporche di sangue esiliato in un avveniristico isolotto-carcere (Fuga da Absolom), vedovo e padre premuroso che sfida i pregiudizi dell’America profonda negli anni Cinquanta ricambiando l’affetto di una donna di colore (Una moglie per papà), berretto verde alle prese con un sacro pachiderma nell’episodio più strano che si ricordi del conflitto vietnamita (Operation Dumbo Drop, liberamente ispirato alle memorie del maggiore Jim Morris), funzionario dell’FBI corrotto (Hannibal) il cui cervello occuperà un posto d’onore nella nouvelle cuisine del dott. Lecter… Queste sono alcune fra le “maschere” indossate da Ray Liotta in oltre trent’anni di carriera. Facciamoci dunque coraggio, mettiamo indietro le lancette dell’orologio e tiriamone fuori altre, ugualmente pregevoli, dal “cofano”.
5Quei bravi ragazzi (1990) di Martin Scorsese
Dal romanzo Il delitto paga bene (Rizzoli; ’87) di Nicholas Pileggi. Ragazzo di origini italo-irlandesi, cresciuto nella Grande Mela nel (falso) mito del gangster al quale si apre ogni portone, Henry Hill incomincia la propria salita all’empireo del crimine organizzato. Spalleggiato da Jim Conway (Robert De Niro) e Tommy De Vito (Joe Pesci) assapora, a mano a mano, la droga, il rossetto di un’amante sulle proprie labbra e colletto, come pure la brutalità e, in seguito, una solitudine maggiore di quanto credesse. Il vecchio capomafia Paulie Cicero (Paul Sorvino) vorrebbe ridimensionare il giro d’affari ma il “pupillo” Henry e i due compari non sentono ragioni, mettendosi in proprio, mirando sempre più in alto…
Due ore e venticinque da capogiro. Segreti della macchina-cinema perfettamente impressi nelle mani e nella mente, Scorsese “mitraglia” lo spettatore sia visivamente (inquadrature di breve durata, sequenze che si bloccano a fermo-immagine, sguardi in camera) che sul piano uditivo (toni e linguaggio sono e restano tutt’ora urticanti: all’epoca molte associazioni americane su media e minori fecero il diavolo a quattro, contando nel film oltre 296 imprecazioni). Un microcosmo di predatori, trainato esclusivamente dal Dio Denaro, dove si impara presto a “divorare” per non essere “divorati”. Alternando sapientemente sarcasmo e improvvisi scatti sanguinari, di fredda determinazione, Ray Liotta tratteggia il suo ruolo più noto presso il grande pubblico.