mercoledì, Settembre 11, 2024
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Da Biancaneve a Raya, come si è evoluta l’eroina nell’universo Disney?

Il 5 marzo uscirà su Disney+ Raya e l'ultimo drago. Quale occasione migliore per una panoramica sulla figura delle eroine nei cartoon Disney?

Una principessa guerriera. Così il regista Don Hall ha descritto, durante la conferenza stampa di presentazione del nuovo film d’animazione targato Walt Disney Raya e l’ultimo drago, il personaggio della protagonista. Una definizione che ci riconsegna l’immagine di una figura femminile nuova per l’universo dei Classici Disney. Raya come punto di arrivo di una riflessione che da anni ormai sta caratterizzando la produzione degli studi di Burbank? Perché non vederla in quest’ottica, dopo tutto?

Che il cinema non sia un paese per donne è un dato di fatto. Tolte le attrici e forse le appartenenti ad alcune specifiche categorie ritenute volgarmente “più femminili” – si pensi, ad esempio, alle costumiste o scenografe -, il ruolo delle maestranze facenti parte del “gentil sesso” (sic!) è alquanto marginale. Lo è al di qua dello schermo – ad oggi solo una donna si è aggiudicata un Oscar come miglior regista (Katrin Bigelow, oltretutto per il “muscolare” The Hurt Locker) -, ma anche paradossalmente sul grande (o piccolo) schermo. Spesso condannata a ruoli stereotipati o comunque “succubi” di figure maschili più forti (a volte persino tossiche), la rappresentazione della figura femminile ha cominciato a mutare ad Hollywood anche a seguito dell’insofferenza della società (o quantomeno di una parte di essa) che capillarmente si sta riverberando sui media.

Raya e l’ultimo drago (qui la recensione) potrebbe essere letto anche da questo punto di vista, ovvero da quello dell’evoluzione della figura femminile: da mero accessorio narrativo ad eroina a tutti gli effetti. Ed è come se all’interno del film defluisse quasi un secolo di storia della Walt Disney in materia di caratterizzazione della donna. Parente stretta delle Elsa e Anna di Frozen – Il regno di ghiaccio (2010), Raya è la quintessenza della nuova femminilità cinematografica. Una femminilità che non necessita di alcuna figura maschile per affermare se stessa. Non è chiaramente sempre stato così, il viaggio dell’eroina nell’universo Disney è stato ostico, pieno di contraddizioni, di battute d’arresto. Un percorso complesso che si è dipanato dagli anni ’30 fino ad oggi, e crediamo conduca proprio fino a Raya.

In principio fu Cenerentola

Il primo lungometraggio Disney, Biancaneve, è del 1937. La protagonista è una flemmatica principessa travolta dagli eventi – che forse non riesce neanche a comprendere fino in fondo -, salvata dal classico principe azzurro. Non proprio una figura femminile forte, ma neanche particolarmente vivida (e pensare che siamo negli anni d’oro della screwball comedy dove la figura femminile sovente dà filo da torcere agli uomini di turno). Decisamente più complessa invece è la protagonista di Cenerentola (1950), film che esce comunque in un contesto storico assai differente.

A prima vista la parabola di Cenerentola non sembra poi così diversa rispetto a quella antecedente di Biancaneve o a quella successiva di Aurora in La bella addormentata nel bosco (1959). Tutte loro, infatti, vengono salvate da un principe. Almeno all’apparenza. Perché in realtà i loro percorsi sono assai differenti. Se Biancaneve ed Aurora attendono passivamente che qualcuno le salvi, Cenerentola contribuisce in realtà alla conquista del suo obiettivo (anche se è pur sempre il matrimonio con un reale). Se non la possiamo forse definire un’eroina, in lei comunque sono presenti già i semi di un successivo sviluppo della figura femminile nell’universo Disney.

Cenerentola, infatti, non è totalmente passiva, anzi sovente testimonia un attivismo precursore dei tempi. Se in un primo momento questo distacco del personaggio da quelli a lui quasi coevi può sembrare persino rivoluzionario, è necessario tenere conto dell’epoca in cui il film è stato prodotto. Cenerentola uscì nel 1950 e fu il primo cartoon Disney ad essere distribuito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Un accadimento durante il quale negli Stati Uniti le donne svolsero un ruolo non certo secondario. La chiamata alle armi, infatti, non era rivolta solo agli uomini (giovani e meno giovani) da impiegare direttamente al fronte, ma anche a coloro che potevano avere un ruolo di primo piano in quello che venne definito il “fronte interno”.

I soldati in Europa e nel Pacifico avevano bisogno di armi, di cibo, di utensili. Svuotate le fabbriche di personale maschile, questo dovette essere sostituito proprio dalle donne, chiamate a ricoprire un ruolo decisivo per la riuscita dell’impresa bellica. Proprio negli anni della Seconda Guerra Mondiale anche le strisce a fumetti quotidiane Disney disegnate da Floyd Gottfredson, con chiari intenti propagandistici, mostravano i personaggi Disney impegnati a contribuire alla causa bellica: Topolino va a Parigi a combattere i nazisti, Pippo viene scartato dall’esercito ma si ricicla come operaio in fabbrica, e la stessa Minni entra a far parte dell’aviazione.

In un periodo in cui le donne avevano svolto un ruolo decisivo per il paese era probabilmente naturale per la Disney destrutturare l’archetipo della principessa indifesa salvata dal suo principe. Quest’ultimo continua a svolgere il suo ruolo – di fatto, è lui che sceglie Cenerentola e le permette di affrancarsi dalla matrigna e dalle sorellastre -, ma siamo sicuri che la protagonista non contribuisca alla sua scalata sociale? E qui dobbiamo ancora una volta tenere conto del contesto in cui è nato ed è stato distribuito il film. Siamo nel 1950, la guerra è finita da appena cinque anni. In Europa – un importante mercato per Hollywood, tra le promotrici del “Piano Marshall” – tutto è da ricostruire, sia mentalmente che materialmente; ma dall’altra parte dell’Oceano le cose non vano meglio: la guerra non  mai giunta negli Stati Uniti (a parte il bombardamento di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, che determinò l’entrata degli States nel conflitto) ma ha lasciato comunque un segno indelebile su quella che verrà definita la Greatest Generation.

C’è bisogno di ricostruire. E proprio questo spirito di ricostruzione pervade la favola di Cenerentola riletta da Walt Disney. Perché se è vero che è lecito sognare, è anche vero che i sogni terminano il loro effetto allo scoccare della mezzanotte. Dopo è necessario rimboccarsi le maniche e fare in modo che si realizzino. Ed è ciò che fa Cenerentola: accettando di lavorare come sguattera in casa propria, al soldo della perfida matrigna. Non è tanto la magia – che infatti sopraggiunge solo in un secondo momento -, quanto il lavoro manuale che la protagonista svolge, la fatica che fa nel tirare a lucido i pavimenti che la nobilita e la rende “visibile” in chiave positiva sia a noi spettatori che al principe.

Un universo prettamente maschile

Per anni il personaggio di Cenerentola è rimasto un unicum all’interno dell’universo disneyano. Dagli anni ’50 fino alla fine degli ’80 sono poche le figure femminili che riescono ad emergere in qualità di proto-eroine. Nel 1951 viene realizzato Alice nel paese delle meraviglie, adattamento dell’omonimo romanzo di Lewis Carrol. Un film “folle”, che non a caso fu riscoperto nei tardi anni ’60 divenendo un’opera cult per i cosiddetti “figli dei fiori”, i quali interpretarono il viaggio di Alice come un trip mentale causato dall’assunzione di aminoacidi: ed effettivamente la protagonista mangia dei funghetti (allucinogeni?) prima di entrare nel mondo di fantasia in cui rischia di perdere persino la testa!

Rispetto ai personaggi femminili trattati in precedenza, quantomeno Alice non è una principessa, anche se fa parte della nobiltà inglese. È sicuramente più sbarazzina, meno inquadrata (data anche la giovane età) e per certi versi ribelle. Ma non riesce mai ad acquisire una vera e propria fisionomia o una spiccata personalità. È più una figura travolta dagli eventi. Una sorta di Virgilio attraverso il quale gli spettatori sono accompagnati in un viaggio alla scoperta di un mondo rovesciato dove – giust’appunto – non si festeggiano i compleanni ma i non-compleanni.

Eccetto Aurora, protagonista de La bella addormentata nel bosco, a partire dalla fine degli anni ’50 la figura femminile sembra praticamente essere dimenticata dalla Walt Disney. Gli anni ’60 e ’70 sono paradossalmente caratterizzati dalla sua (voluta?) assenza. Un paradosso se pensiamo anche al sopraggiungere del movimento femminista proprio negli Stati Uniti, ma che forse ci aiuta a mettere a fuoco un atteggiamento conservatore da parte della major, che oltretutto in quegli anni sta attraversando la fase più delicata della sua storia. I film d’animazione prodotti, infatti, raccontano quasi esclusivamente di realtà maschili. Le figure femminili divengono marginali (Il libro della giungla) oppure riciclate in chiave antagonistica (La spada nella roccia).

E anche quando acquisiscono maggiore spessore, come nel caso de Gli aristogatti (1970), Robin Hood (1973), e soprattutto Le avventure di Bianca e Bernie (1977), alla fine le figure femminili risplendono solo di riflesso ai loro partner maschili (anche nel caso di Duchessa, pur essendo la protagonista del film insieme ai suoi cuccioli). Mentre per quasi tutti gli anni ’80 nessun ruolo da protagonista viene affidato a un personaggio femminile. Questo almeno fino all’uscita de La sirenetta (1989)

Il Rinascimento Disney

Tra le varie fasi della storia della Walt Disney definite da studiosi e critici, quella che ha inizio con l’uscita nelle sale de La sirenetta è stata rinominata “Rinascimento”. Gli anni ’70 e ’80, anche se oggi parzialmente rivalutati, sono stati da sempre considerati il momento più difficile per la Disney. Una crisi secondo alcuni imputabile alla scomparsa del demiurgo Walt (nel 1966), alla crisi finanziaria e forse anche all’affermazione di un brand che da anni già – per impulso del suo stesso creatore – aveva cercato di ampliare il proprio mercato dimenticandosi un po’ della produzione cinematografica: si pensi, ad esempio, alla costruzione dei parchi a tema. La rivoluzione, a dire il vero, iniziò ufficialmente nel 1984, quando Michael Eisner e Frank Wells assunsero il controllo degli studios e lavorarono sul rilancio dell’animazione.

La sirenetta fu il film della svolta. Lo fu a livello estetico, perché riesumò il genere musical – tanto caro all’universo Disney -, ma anche dal punto di vista della caratterizzazione del personaggio femminile, il quale riacquisisce predominanza nei confronti di quello maschile. Certo, Ariel non si impone mai come una vera e propria eroina, ma – a vedere il bicchiere mezzo pieno – presenta delle caratteristiche decisamente più moderne: ribellione all’ordine costituito, rinnovata intraprendenza, spirito d’iniziativa. Poi, naturalmente, sarà sempre il personaggio maschile ad avere l’ultima parola: prigioniera di Ursula, Ariel riuscirà a liberarsi solo grazie all’intervento salvifico di Eric.

Sono caratteristiche ravvisabili anche in La bella e la bestia (1991), dove però Belle anziché essere salvata, salva nel finale la Bestia grazie al suo amore. Non è una vera e propria rivoluzione, ma certo si tratta di una controtendenza rispetto ai finali che caratterizzavano, ad esempio, Biancaneve La bella addormentata nel bosco. Un ulteriore passo in avanti, nella caratterizzazione dell’eroina Disney, è rappresentato dalle protagoniste di Pocahontas (1997) e Mulan (1998). La principessa indiana testimonia un’indipendenza che la porterà a scegliere in autonomia la propria strada, rinunciando persino a quello che sembrava – per le principesse Disney – irrinunciabile: l’amore.

Ancora più complessa è invece la figura di Mulan: talmente desiderosa di affermare se stessa (in chiave positiva, ovviamente) da rifuggire la tradizione che la vorrebbe mogliettina succube del marito di turno per vestire i panni di un prode guerriero, accettando di nascondersi sotto sembianze maschili. Un percorso però che la porterà a prendere coscienza di sé a tal punto da abbandonare la maschera fittizia che aveva scelto di indossare per riacquistare la propria femminilità nell’ultimo decisivo duello con l’eccessivamente mascolino capo unno Shan Yu.

oceania

Emblemi della contemporaneità

In una società in rapita evoluzione, la rilettura “critica” della figura della principessa e il suo ruolo sempre più attivo a livello narrativo ha contraddistinto la produzione Disney degli ultimi anni. Se in La principessa e il ranocchio (2009) l’obiettivo dichiarato era quello di fare il primo film Disney animato con personaggi afroamericani – in un momento storico in cui l’America aveva appena eletto il suo primo presidente di colore, Barak Obama -, i successivi film Disney hanno definitivamente fatto emergere delle eroine in senso proprio.

Non lo è probabilmente a tutti gli effetti la protagonista di Rapunzel (2010), anche se dopo essere stata salvata da quel principe azzurro molto sui generis che è il galeotto Flynn salva a sua volta l’amato. Lo sono però a tutti gli effetti le sorelle Elsa e Anna in Frozen – Il regno di ghiaccio. Il ruolo dei personaggi maschili nel film è infatti estremamente strumentale. Sembrano necessari – sia Kristoff che l’antagonista Hans -, ma in realtà ben presto ci si rende conto di quanto siano “accessori” al racconto. Elsa e Anna si prendono la scena. I conflitti contro cui sono chiamate a rapportarsi le sorelle sono profondamente interiori. E per gli uomini sembra ormai esserci ben poco spazio.

Un atteggiamento ravvisabile anche in Oceania (2016), dove la giovane Moana si ribella ai precetti della società patriarcale dalla quale proviene non solo per imporre la propria idea di mondo, ma anche per difendere quella che da secoli ha caratterizzato il suo popolo. Contrariamente al volere del padre, Moana abbandonerà la propria isola, minacciata da un morbo oscuro, per cercare di ritrovare il prode guerriero Maui e salvare il mondo. Se effettivamente nel film il ruolo maschile acquista maggiore valore, l’eroe mitologico rimane pur sempre un fedele alleato. E alla fine, non a caso, non sarà la forza di Maui a mettere fine al flagello che si sta abbattendo sul mondo, bensì l’empatia di Vaiana.

As an evil force threatens the kingdom of Kumandra, it is up to warrior Raya to leave her Heart Lands home and track down the legendary last dragon to help stop the villainous Druun. © 2020 Disney. All Rights Reserved.

Raya, principessa guerriera

Raya e l’ultimo drago ci presenta invece un personaggio femminile autosufficiente. Se non fosse per qualche ruolo di contorno, gli uomini sarebbero banditi dalla terra fantastica di Kumandra. È vero che Raya riceve insegnamenti preziosi da parte del padre, ma il suo ruolo di eroina non è mai messo in discussione. È lei la vera protagonista, è lei il perno attorno al quale ruota l’intera narrazione. E non è un caso che la sua principale “antagonista” sia un’altra figura femminile, a lei speculare: Namaari.

Come scritto nell’incipit, è come se il personaggio di Raya fosse il punto di arrivo di un processo di affermazione dell’eroina disneyana. Da soggetto inanimato (Biancaneve) a personaggio attivo (Cenerentola), da personaggio d’azione (Ariel e Belle) a “germoglio” di eroina (Pocahontas, Mulan), da eroina in fase di cristallizzazione (Elsa, Anna, Moana) a eroina a 360° (Raya, naturalmente). Nella caratterizzazione della protagonista del film diretto Don Hall e Carlos López Estrada (e sceneggiato da Adele Lim e Qui Nguyen), la tradizione delle culture del sud-est asiatico si sposa con quella dell’animazione Disney. Una tradizione, nel secondo caso, riletta criticamente.

Dal punto di vista di Raya, il film mette in discussione sia la figura dell’eroe (senza alcun riferimento di genere) – ormai antieroe nel bene e nel male – che quella specifica di eroina. Quello di Raya è un doppio viaggio, forse persino triplo. Uno meramente narrativo, per cercare di salvare Kumandra; uno interiore, per affermare se stessa (anche in quanto donna); l’altro metacinematografico, per rimodernare la figura della principessa Disney e dare il là a una sua compiuta rivoluzione.

Diego Battistini
Diego Battistini
La passione per la settima arte inizia dopo la visione di Master & Commander di Peter Weir | Film del cuore: La sottile linea rossa | Il più grande regista: se la giocano Orson Welles e Stanley Kubrick | Attore preferito: Robert De Niro | La citazione più bella: "..." (The Artist, perché spesso le parole, specie al cinema, sono superflue)

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