Sam Mendes è un regista eclettico, e l’uscita nei cinema del film 1917 non fa che confermarlo. Nell’arco della sua carriera, l’autore britannico ha affrontato svariati generi: il dramma (America Beauty e Revolutionary Road), il gangster movie (Era mio padre), lo spy movie (la saga di James Bond con Skyfall e Spectre), la commedia (American Life), e persino il War Movie (Jarhead).
Abbandonato al suo destino l’agente segreto più famoso della storia del cinema (che ritornerà quest’anno in No Time to Die), Mendes ha accettato la sfida di dirigere 1917, un kolossal bellico che è stato capace – forse un po’ a sorpresa – di aggiudicarsi 2 Golden Globes (Miglior Film Drammatico e Miglior Regia), e che si presenterà come favorito alla corsa agli Oscar dopo essere stato nominato a ben 10 premi (meglio di lui solo il Joker di Todd Philips).
Rispetto a Jarhead, che raccontava una storia (vera) ambientata durante la Guerra del Golfo, 1917 disloca la narrazione – come si evince dal titolo – durante la Prima Guerra Mondiale. Il film di Mendes, quindi, si presenta come l’ultimo tentativo di trasporre sul grande schermo un evento la cui tragica portata segnò gran parte del ‘900 (tanto per dirne una: i movimenti nazionalisti che sfociarono poi in totalitarismi germogliarono proprio dalle ceneri di tale accadimento).
La guerra entrò a far parte dell’immaginario cinematografico già durante gli anni del suo svolgimento (dalla metà alla fine degli anni ’10). Fu però negli anni ’30 che un manipolo di registi si fece coraggio e cominciò ad osservare criticamente l’evento bellico. Si tratta di film pacifisti, realizzati in una manciata di anni comunque turbolenti, che videro l’ascesa del nazionalsocialismo in Germania e del fascismo in Italia e Spagna.
Tra questi All’Ovest niente di nuovo di Lewis Milestone (1930, tratto dal romanzo di Erich Maria Remarque “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, pubblicato solo l’anno precedente), L’uomo che ho ucciso (1932) di Ernst Lubitch, che racconta la storia di un soldato francese che, a conclusione del conflitto, si reca in Germania a conoscere la famiglia di un soldato nemico ucciso (e dalla quale viene alla fine “adottato”), e il visionario (e ancora oggi per certi versi sconvolgente per la sua messa in scena onirica) Les croix de bois (1934, letteralmente Le croci di legno) di Raymond Bernard.
1917 di Sam Mendes e la Prima Guerra Mondiale raccontata al cinema
Il tema del pacifismo contraddistingue anche uno dei capolavori di Jean Renoir, La grande illusione (1937), nel quale l’evento bellico viene osservato (con grande acume) come la fine di un mondo per certi versi ancora ottocentesco. Un mondo che cambia e lascia trasparire anche il lato più barbaro degli uomini, non solo nel confronto tra eserciti nemici, ma anche all’interno dei singoli contingenti.
È quanto denuncia, ad esempio, Stanley Kubrick in Orizzonti di gloria (1957), pellicola che mette al bando la disumana pratica delle fucilazioni sommarie compiute all’interno degli eserciti a discapito dei disertori oppure dei soldati che si rifiutano di compiere operazioni suicide (come quella descritta dal film con protagonista Kirk Douglas).
Ma la Prima Guerra Mondiale fu anche il luogo dove si infransero i sogni di un’intera generazione, inconsapevole all’orrore a cui stava andando incontro. È a questo manipolo di ragazzi – alcuni davvero troppo giovani, si pensi ai nostri “ragazzi del ’99” – che Peter Weir dedica uno dei suoi film più struggenti, Gli anni spezzati (1981), con protagonista un giovane Mel Gibson, che oltretutto è dedicato alla storia dei piccoli contingenti australiani ed neozelandesi e che si trovò a combattere nella brutale battaglia di Gallipoli.
Come le altre cinematografie, anche quella italiana, seppur a fatica, ha fatto i conti con la Prima Guerra Mondiale. Non fu semplice, perché il conflitto non fu solo caratterizzato dalla disfatta di Caporetto, ma anche da quella che Gabriele D’Annunzio definì la “vittoria mutilata”. È nel secondo dopoguerra che il cinema italiano affronta “di petto” il problema della Grande Guerra.
Da una parte lo fa con lo sguardo grottesco che contraddistingue il cinema di Mario Monicelli, a cui si deve il celebre La grande guerra (1959), all’epoca al centro di aspre polemiche per le caratterizzazioni poco eroiche dei due protagonisti (interpretati dai giganti, Alberto Sordi e Vittorio Gassman); dall’altra attraverso il crudo realismo di Uomini contro (197o) di Francesco Rosi (tratto da un romanzo di Emilio Lussu), anch’esso criticato per l’immagine dell’esercito italiano offerta; ed infine (ma qui si arriva ai giorni nostri) anche con la candida poesia di Ermanno Olmi, a cui si deve l’ultima trasposizione cinematografica del conflitto con Torneranno i prati (2014).
E, ritornando a 1917 di Sam Mendes, già la scelta di “riesumare” tale conflitto evidenzia l’ambizione del regista, anche sceneggiatore insieme a Krysty Wilson-Cairns, di raccontare l’orrore di quella che, per certi versi, è stata la guerra che ha segnato più nel profondo la civiltà occidentale, gettando la sua società nella modernità e rompendo definitivamente con il passato ottocentesco.
A questo si deve naturalmente aggiungere la scelta del regista di raccontare la storia attraverso un’estetica che ambisce a rendere l’esperienza cinematografica più immersiva. Il film, infatti, è concepito come un’unico piano sequenza (naturalmente falso, e reso possibile dalle nuove tecnologie) che permette allo spettatore di “vivere” il film, più che di “guardarlo” (da questo punto di vista, da lodare lo straordinario lavoro compiuto dal direttore dalla fotografia Roger Deakins).
Insomma, un progetto ambizioso quello di Mendes, che si preannuncia come una sorta di risposta “storico-cinematografica” al kolossal di Christopher Nolan Dunkirk, ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, e che è in grado di offrire un nuovo punto di vista (sopratutto estetico) sul modo di narrare la guerra al cinema.